Il piano per il Venezuela dell’amministrazione Trump è chiaro. Lo hanno ripetuto presidente, vicepresidente, responsabile della sicurezza (John Bolton) e della politica estera (Mike Pompeo): abbattere il governo bolivariano di Nicolás Maduro. Dunque «tutte le opzioni sono sul tavolo» per un «cambio di regime», compreso un intervento militare diretto (quello indiretto è già in corso con gruppi armati di «contras» alle frontiere con Colombia e Brasile e guastatori operanti anche all’interno, come dimostra il gigantesco apagón di giovedì).

È anche chiaro quello che Trump non vuole: un processo di riconciliazione nazionale per mettere fine alla pericolosa polarizzazione delle forze in campo. Per attuarlo sono necessari sia tempi lunghi per le trattative, sia garanzie concrete e chiare a entrambe le parti.

La politica dell’amministrazione Usa e dei suoi alleati è invece rivolta a trasformare quelli che oggi si sentono – e in parte lo sono – perseguitati nei persecutori di domani (con la minaccia a Maduro di finire nella prigione di Guantanamo). Quella che prevale è la ricerca di una vendetta e di un vendicatore, non della «giustizia». Politica che tra l’altro acutizza la divisione cronica all’interno dell’opposizione, dove i leader più “anziani” e da anni in prima linea – anche pagandone le conseguenze, come Henrique Capriles, Antonio Ledezma, Leopoldo Suarez – sono insofferenti verso Juan Guaidó, una sorta di nuovo arrivato imposto dagli Usa.

I diritti umani c’entrano ben poco nei piani dell’amministrazione Trump: personaggi come Bolton – fautore dell’invasione dell’Iraq – e l’inviato speciale per il Venezuela, Eliott Abrams – i cui legami con gli squadroni della morte in Centramerica sono stati documentati da indagini giornalistiche negli Usa – hanno ben pochi titoli per farsi paladini di tali diritti. Come pure il principale alleato latinoamericano, il colombiano Iván Duque, presidente di un paese nel quale continua il massacro quasi quotidiano, del tutto impunito, di leader sociali da parte dei paramilitari.

È invece sempre più evidente che l’amministrazione Trump è intenzionata a imporre con tutti i mezzi la dottrina Monroe, dunque a riprendersi il controllo del subcontinente latinoamericano, anche a costo di provocare una nuova e pericolosa crisi internazionale.

Quello che non si comprende è l’appoggio dato dall’Unione europea – quantomeno dalla grande maggioranza dei paesi membri– alla politica imperiale di Trump, anche a scapito di propri interessi. Se la ragione di un interventismo in Venezuela è soprattutto quella di mettere fine in tempi brevi a una «catastrofe umanitaria» – con i dati sbandierati da agenzie supposte neutrali, come la «povertà cresciuta dal 27 al 94%», o «la denutrizione triplicata, con l’80% delle famiglie venezuelane senza una sicurezza alimentare» – la soluzione più logica sarebbe porre fine alle sanzioni che rendono sempre più difficile al governo di Maduro comprare all’estero alimenti e medicinali.

Solo le sanzioni degli Usa provocano una riduzione di entrate calcolata a 11 miliardi di dollari. Ovvero quasi il 90% della cifra (117 miliardi di dollari) spesa nel 2018 dal governo bolivariano per acquistare alimenti e medicine. È chiaro che le sanzioni contro il governo bolivariano colpiscono la popolazione e vengono usate cinicamente per tentare di provocare una guerra civile.

Oppure perché non proporre un “piano B”: un programma di scambio tra petrolio e alimenti (food for oil) come avvenne nell’Iraq di Saddam Hussein per porre fine alla morte di decine di migliaia di persone, soprattutto minori, a causa delle sanzioni internazionali.

Mentre si avviano trattative tra governo Maduro e opposizione, l’Ue potrebbe proporre che i soldi pagati per il petrolio venezuelano vengano posti in un fondo – anche con un controllo internazionale – destinato all’acquisto appunto di alimenti, medicinali e infrastrutture per l’industria petrolifera. O che gli Usa – se fossero davvero preoccupati per la «crisi umanitaria» – esimano dalle loro sanzioni extraterritoriali paesi come India e Cina che acquistano greggio dal Venezuela, purché tali introiti vengano usati per acquisire alimenti.

Quello che appare chiaro, però, è che Trump e i suoi falchi non pensano per nulla – né probabilmente ammetterebbero – un “piano B” alternativo al cambio di governo in Venezuela. La loro strategia continentale è chiara, principale forza antagonista alla dottrina Monroe. Lo dimostrano le recenti sanzioni adottate dall’amministrazione Trump per rendere più duro il blocco economico, commerciale e finanziario contro il governo di Cuba, la cui caduta è un obiettivo complementare a quella del governo bolivariano.

Tra queste sanzioni vi è la sospensione per solo 30 giorni (scade il 17 aprile) del Capitolo III della Legge Helms-Burton, che dà diritto a qualsiasi cittadino statunitense di reclamare le proprietà che furono nazionalizzate dal governo cubano dopo la vittoria della rivoluzione nel 1959 e di poter portare a giudizio presso una corte Usa i cittadini o compagnie non cubani che «traffichino» con tali beni. Qualora nei prossimi giorni il Capitolo III fosse reso operativo come minacciato, avrebbe un effetto demolitore delle aspirazioni del governo cubano di poter attrarre investimenti esteri. La maggioranza dei settori chiave dell’economia cubana sarebbero colpiti: turismo, produzione del niquel, industria dello zucchero, agricoltura, infrastruttura aeroportuaria e portuaria.

Da più di 60 anni – con la sola eccezione dell’ultimo mandato di Barack Obama – più di dieci presidenti statunitensi hanno tentato di piegare Cuba soprattutto, ma non solo, con una spietata aggressione economica, commerciale e finanziaria. L’ambizione non nascosta di Trump è di essere il presidente vittorioso. L’affondo contro il Venezuela bolivariano non puzza solo di petrolio e di altre materie prime ambite. Ma sarebbe appunto una vittoria strategica.

Caduto Maduro e il suo governo, Cuba perderebbe una delle sue principali fonti di valuta: 6,046 miliardi di dollari ricevuti nel 2017 – ultime cifre fornite – come compenso per le prestazioni dei servizi professionali di medici, infermieri, educatori e allenatori sportivi cubani che lavorano in Venezuela. Inoltre Caracas invia nell’isola 55mila barili al giorno di greggio. Un colpo durissimo in un periodo di grave crisi economica dell’isola e mentre le riforme economico-sociali sono ancora in mezzo al guado.