Nessuno sa il suo nome. L’unica certezza è che vive a Oslo e che negli anni ha lasciato il segno in tante parti del mondo. Una sequela di stencil e stampe popolate da personaggi sempre doppi, diavoli e santi. Ma soprattutto ha battezzato i muri di Los Angeles, Parigi o Roma, dove era presente lo scorso anno in occasione della quinta edizione dell’Outdoor Urban Art Festival. È arrivato con l’amico e collega islandese Otio Yüng e ha decorato un apposito spazio nella ex dogana di San Lorenzo.

L’idea era di infettare i muri con i loghi tipici della cultura dominante (da Apple a Twitter) e al contempo ridurre quelle icone a punti colorati innocui e depotenziati, non a caso congelati in un luogo in dismissione.

«Sia per me che per Otio – racconta DotDotDot – è stata la prima volta in Italia; non c’è stato tempo di girare. La cucina mediterranea e la disponibilità degli organizzatori ci hanno aiutato a sopportare tutte quelle ore di lavoro. Ma voglio tornare presto. Sul lavoro in sé devo dire che nelle mie cose non c’è mai un’idea che domina, ci sono semmai temi ricorrenti; commento quello che vedo, dalla cosa più sensata a quella più insignificante. Un denominatore comune potrebbe essere l’ironia ma con elementi di serietà che rendono i miei lavori in qualche modo ambigui e aperti a varie interpretazioni».

Insieme ai più noti Pøbel e Dolk, e all’amico Martin Whatson, Ddd rappresenta la crema della urban art norvegese, un universo in perenne ebollizione. Autodidatta, nascosto da sempre dietro un ferreo anonimato, inevitabilmente accomunato a Banksy (a chi non è toccato?), nel 1997 si cimenta per la prima volta con i graffiti adottando una sfilza di soprannomi. Quando il suo lavoro si fa più concettuale – ispirato dal londinese D*Face – sceglie di chiamarsi DotDotDot. Il soprannome – letteralmente «tre puntini» – deriva dal logo di uno dei più noti istituti di vigilanza norvegesi. «Sono i guardiani della proprietà privata – dice -. Perseguitano i più poveri, braccano i tossici per le vie della città. Ho trasformato quello che hanno sulle divise in qualcosa di costruttivo. Questo era all’inizio, poi ho visto che i tre puntini potevano rimandare ai diversi livelli della conoscenza, alla religione, alla magia, a cose molto profonde. Se ci pensi è molto ironico considerando la natura effimera del mio lavoro».

Assai più ironico il fatto che oltre ai punti, nella storia di Ddd ci sia anche e soprattutto una Linea, quella di Osvaldo Cavandoli, tra i più noti disegnatori italiani. Tanti i muri su cui ha omaggiato il personaggio. «Da noi si chiama Streken – dice -. Un’intera generazione è cresciuta vedendo La Linea ogni giorno in tv. Ho sempre amato il suo bipolarismo umorale. Non sono però così ciarliero. E nemmeno faccio una vita troppo movimentata, preferisco la solitudine che mi rende creativo, in questo modo riesco a concentrarmi. Posso lavorare fino a 16 ore di seguito e vedere pochissime persone. Ci sono amici che ogni tanto vengono a trovarmi, beviamo una birra e commentiamo le ultime notizie. Sono fortunato ad avere amici e una famiglia che mi consentano questo stile di vita. La scelta dell’anominato, invece, deriva dal fatto che non tutto quello che realizzo in pubblico è accolto con rose e fiori. Lo so sulla mia pelle, sono stato condannato per aver fatto graffiti e ho passato mesi in carcere. Inoltre non mi piace stare sotto i riflettori, l’anonimato mi consente spazi di pace e quiete. Il mio vero nome lo conservo per la mia famiglia e le persone che amo. In questo senso i graffiti, il mondo da cui provengo, ben rappresentano l’idea di invisibilità, non pretendono di significare qualcosa o di essere spiegati in un seminario sull’arte, ti concentri solo sulla struttura delle lettere e sul colore, questo ti dà un senso di libertà. Partendo da questi presupposti mi suona ancora strano quando le persone parlano delle mie cose come arte». Che è poi un argomento che porta dritto al doloroso antagonismo tra strada e galleria… «Esatto – riparte -. A prescindere dall’idea di legalità, per me street art serve ad indicare quello che succede in strada e negli spazi pubblici. Sarò un po’ troppo pragmatico ma è quello che penso. Quando dipingo all’esterno divento lo ’street artist Ddd’, quando entro nelle gallerie sono ’l’artista Ddd’. I miei lavori originali saranno però sempre quelli che vedi in strada, deperibili e temporanei. Le loro copie finiscono incorniciate sui muri e esibite come arte; non significa che siano meno ‘vere’, penso che nelle gallerie acquisiscano una nuova dimensione e sollecitino dibattiti e punti di vista diversi. Comunque nel futuro mi dedicherò maggiormente alla strada».

Come fa da sempre, peraltro. Su muri risucchiati dal buio della notte o in eventi autorizzati come la tappa romana, il Project M di Berlino o il Contraband, la manifestazione della Black Apple, la galleria di Los Angeles. Oppure il Nuart Festival, spettacolare rassegna norvegese giunta alla 15esima edizione, a cui affluiscono artisti urbani da ogni parte del mondo. Si tiene a Stavanger e il prossimo settembre per DotDotDot sarà la terza volta. Nel frattempo le sue opere lasciano spesso i muri e si trasferiscono nelle gallerie di mezzo mondo. Anche su carta o tela mantengono intatta l’estetica dell’artista. Quella profonda ironia che Ddd infonde ai suoi lavori più stradaioli e violenti, fitti di soggetti al limite o già sul punto di non ritorno, quasi sempre eterni burloni; ecco allora i killer in doppiopetto e passamontagna che fanno con la mano il segno della pistola (Handgun), ladri specializzati in furti d’arte colti nella fuga (Theft) o in posa con la tela sottratta (Scream), vandali che celebrano se stessi e la propria prole (Vandal King), dimostranti con moffole a forma di coniglio (Protester). Tutti con i volti coperti o parzialmente celati, tutti invisibili come la mano che li ha creati. Se D*Face giustizia la pop art – colpevole secondo l’artista di non aver mai radicalizzato la critica alla cultura di massa – snaturandone i simboli-mito e necrotizzando i volti icona di Marilyn e dello stesso Warhol, Ddd mette in scena la faccia noir e mai raccontata del movimento, quella che affiora dal pop contemporaneo delle cronache nere, una pletora di antieroi che a sua volta giustizia spuntandogli gli artigli. L’intento è simile, la direzione opposta. Decisivo e avvincente il punto di partenza, la quieta Norvegia.

«Paragonato ad altre nazioni – spiega – il mio paese è costellato di successi economici, alti standard di vita e grande sicurezza sociale. C’è però l’altra faccia della medaglia, ossia una forte spinta al conformismo; i norvegesi coltivano l’idea di ordine, non quella di ribellione. Non penso sia casuale che proprio qui è nato il black metal con le sue celebrazioni del caos e degli aspetti più oscuri dell’esistenza. Il vandalo, ad esempio, è una figura che mi affascina, è un antieroe ed ha fatto la storia. I Vandali erano percepiti come barbari e come distruttori dell’antica Roma; erano i punk del loro tempo, mettevano in discussione l’ordine e l’ordinamento romano. Per me il vandalo rappresenta sia il forte individualismo che caratterizza la contemporaneità sia la minaccia alle verità dominanti e in particolare al sacro concetto di proprietà privata. Questo mi intriga. Se poi sia una reazione alla vita in Norvegia non so dirlo, ma forse tutto parte dall’Amleto di Shakespeare in cui si ricorda che c’è del marcio nel regno di Danimarca e poiché ai tempi quella nazione dominava il mio paese allora il verso si riferisce per forza anche alla Norvegia. Non so quanto del mio paese finisca nei miei lavori, diciamo che vivere in Norvegia aiuta ad avere una prospettiva periferica, a vedere il mondo dall’esterno. Molti norvegesi avvertono un senso di provincialismo, avere interessi europei diventa allora un elemento di distinzione e il ‘continente’ uno standard a cui conformarsi. In realtà siamo in un villaggio globale, e per quanto mi riguarda, prima di finire sulla tela le mie idee hanno viaggiato a lungo per il mondo. Forse la melancolia e l’umorismo nero con cui osservo il mondo sono frutto delle grandi, oscure, foreste del mio paese». Forse, ma assomigliano anche a una vaga mutazione dei testi teatrali di Ibsen in cui convenzioni e ipocrisie borghesi andavano a gambe per aria. Nella galleria a cielo aperto che è la strada – e che per Keith Haring e Jenny Holzer ha un senso solo se hai qualcosa da dire – il palcoscenico accoglie allora il Re Vandalo che solleva il figlio neonato (Dot e prole) e lo affida al regno dell’anonimato, dell’anti-ordine. Oppure L’urlo di Munch, trasformato in una eulogia, celebrazione della beffa. È di sicuro l’opera che meglio rappresenta il «sistema Ddd».

«Nel ’94 – conclude – mentre il paese attendeva in massima trepidazione e in uno stato di psicosi collettiva che si inaugurassero i Giochi olimpici invernali di Lillehammer, L’urlo di Munch fu rubato dalla Galleria Nazionale di Oslo. Uno dei ladri era un ex giocatore di football e l’altro un ex graffitista, si intrufolarono con una scala, lo staccarono dalla parete e se ne andarono. Quando la polizia arrivò sul posto, trovò una cartolina con sopra due uomini che ridevano e il messaggio, ‘Grazie per i vostri schifosi sistemi di sicurezza’. Nel 2013 per i 150 anni dalla nascita di Munch ho voluto onorare i due tipi esclusi dalle celebrazioni. Prima l’ho fatto sui muri, poi nel 2014 – a 20 anni dal furto – su stampa. Sono sicuro che lo stesso artista avrebbe apprezzato». Nessun dubbio, puntini puntini puntini.