«Una cosa era scrivere di vicende altrui, avere una conoscenza teorica dello sfruttamento di manodopera, delle ingiustizie e della fame; ben altro era sperimentarlo sulla propria pelle». Quando nel 1952 Dorothy Day consegna questo pensiero si riferisce alla sua prigionia, raccontata nell’autobiografia The Long Loneliness insieme a quasi sessant’anni di storia americana. Tradotta per Jaca Book poco dopo la morte di Day (29 novembre 1980) ora viene ripubblicata perché da qualche tempo non più disponibile in commercio. Una lunga solitudine (pp. 263, euro 20, traduzione di Marilina Degli Alberti) racconta la storia di una protagonista straordinaria del Novecento.

ATTIVISTA RADICALE per i diritti sociali, anarchica e pioniera del femminismo, in seguito cattolica militante, Dorothy Day viene arrestata per la prima volta ventenne nel 1917 insieme ad altre 34 suffragiste in seguito a una manifestazione non autorizzata davanti alla Casa Bianca per chiedere il voto alle donne. In quel momento era già cronista del Call di New York e impegnata nella rivista The Masses, la sua vicinanza era agli ambienti anarchici e agli scioperi, operai ma anche studenteschi, nelle fabbriche e nelle strade. La disperazione attonita l’aveva provata in quelle prime notti in cella, uno smarrimento trasformatosi in vergogna irrimediabile quando due anni più tardi è vittima delle «Palmer Red Raids» che la sorprendono nel dormitorio dell’Industrial Workers of the World, scambiato per postribolo.

Nella prima esperienza della privazione di libertà scopre la solidarietà tra compagne, legge i Salmi e osserva la protesta del digiuno. Cosa avrebbe significato la parabola della fame per Day bisogna intercettarlo nella filigrana biografica che le ha fatto amare da sempre gli ultimi, i senza casa, i senza diritti, gli oppressi. E che l’ha resa prossima alle idee socialiste e alla lotta di classe. La fame è l’altro volto del freddo maleodorante che le punge le ossa nella prima camera in affitto a New York dove non riesce a tirare via dalle pareti e dal materasso i parassiti né a far tacere i gatti che nel pianerottolo miagolano fino quasi a spossessarle il sonno.

FIGLIA DI UN GIORNALISTA sportivo e una protestante, Dorothy Day ha il suo apprendistato di inquieta allerta fin dall’infanzia, quando nella baia di Oakland sua madre andava ad assistere i sopravvissuti del terremoto che nel 1906 aveva devastato San Francisco. In quella circostanza aveva potuto constatare quanto una sciagura così repentina riesca a trovare una risposta altrettanto solida: la condivisione, la spartizione generosa con chi non ha più niente, da un momento all’altro.
Un sentimento che pervade quella bambina, lo stesso covato mentre cercherà di adattarsi alla pratica metodista quando già si è trasferita con la famiglia a Chicago, sia pure senza allegria, o quando si interrogherà sull’attrazione definitiva per autori che mai più la abbandoneranno: Dostoevskij, Tolstoj, Cechov ma anche Dickens, Jack London o Ignazio Silone. È in particolare nei russi che, fin da piccola, intravvede la domanda sull’umano e su Dio, le stesse contraddizioni la seguiranno anche negli anni universitari quando Marx le sembrerà più rispondente della Bibbia e comincerà a riflettere sui «tiepidi» materialisti contro quelli invece «radicali» implorando Dio di amare questi ultimi, perché pur rinnegando entità soprannaturali scelgono qui e ora di lottare in nome di chi non possiede se non le proprie catene di cui liberarsi.

UTOPISTA, ammirata dal creato, vive in comune con immigrati ungheresi e clandestini ex domatori di leoni, innamorata del mare comincia a pregare con disciplina. Non può inginocchiarsi perché teme di farsi troppe domande su quella vecchia questione dell’oppio dei popoli, così ogni giorno sceglie di pregare mentre cammina, non perché povera bensì per gratitudine dei privilegi che non tutti avevano: «una tranquilla bellezza e felicità».

Con una tale consapevolezza, nell’avanzare della Grande Depressione, da giovane donna comprende già molte cose: per esempio che fare la giornalista somiglia al lavoro dell’infermiera, lo diventa per un anno quando tra il 1918 e il 1919 anche negli Stati Uniti imperversa l’epidemia dell’influenza spagnola. Arriva al King’s County Hospital per scelta, accanto a chi si ammala, talvolta scappa sovrastata dalla deiezione dei corpi eppure la vicinanza tra giornalismo e professione sanitaria è interessante in particolare a rileggerla adesso, come risposta ideale a chi ancora costruisce fantasie sull’eroismo pandemico vocazionale, espungendo che si tratti di lavoro: «era impossibile commuoversi a lungo delle sofferenze perché le tragedie si susseguivano. E si era troppo in contatto di esse per avere la prospettiva. Succedevano troppo spesso. Ci pesavano addosso, dandoci una sensazione di immobilità e pacatezza; e poi il continuo daffare non lasciava spazio per pensare». Talmente tanti erano i cadaveri che dovevano avvolgere nelle lenzuola che nemmeno si accorgono, le infermiere e lei compresa, dell’armistizio.

CON UN SOPRAVVISSUTO alla epidemia, Forster, comincia una relazione d’amore e ha una figlia, Tamar Teresa – la perfetta congiunzione di una «piccola palma» (in ebraico) e il nome scintillante di Teresa D’Avila di cui divora la biografia condividendone l’essenza stessa del vivere: «una notte passata in una scomoda locanda»; il giorno del parto scrive un articolo per la rivista operaia New Masses proprio sull’aver messo al mondo una bambina; il plauso, soprattutto tra i marxisti, è così grande che il pezzo rimbalza da un capo all’altro del pianeta.

Dopo la separazione dal suo compagno che non era d’accordo sulla sua adesione al cattolicesimo, l’identità di Dorothy Day comincia a delinearsi meglio. Spirito tanto indomito quanto tormentato, l’apertura a quella esperienza non si scollerà mai alla puntigliosità politica acquisita; non a caso scrive della sua decisione di capire «la dottrina del corpo mistico di Gesù secondo il quale ognuno è partecipe dell’altro», evocando la solidarietà verso chi viene schiacciato, nella fattispecie era il 1927 e la vicenda quella dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti, lo stesso periodo in cui Day lavora per la Lega anti-imperialista che sosteneva il progetto sandinista in Nicaragua.
Anticapitalista, scrive, riconosceva già nella posizione della chiesa di stare dalla parte sbagliata. Lei invece, seguendo anche le posizioni critiche di Romano Guardini, voleva la chiesa di Cristo, perché sapeva che «c’era abbondanza di carità, ma poca giustizia».

SENZA QUESTA COSCIENZA radicale non sarebbe arrivata allo stesso modo alla ulteriore impresa della sua vita, quella seguente l’incontro cruciale con Peter Maurin cui viene indicata da George Shuster, allora direttore di The Commonweal con cui Day collaborava. È con Maurin «l’agitatore» (così amava sentirsi definito questo contadino francese il cui vero nome era Aristide) che nel maggio 1933 a New York comincia a pubblicare un nuovo giornale, The Catholik Worker; nell’anno in cui i disoccupati erano arrivati a 13 milioni, la prima tiratura è di 2500 copie, nel 1936 arrivano a 150mila. Si vendeva per le strade a un cent, le copie non acquistate venivano lasciate gratis su tram, autobus, treni, dal barbiere e dal dentista e in qualunque angolo.

Il successo era ascrivibile certo alla precisa collocazione che lo faceva arrivare nelle reti parrocchiali ma chi lo leggeva era un popolo più vasto che poteva riconoscervi la stessa presa sulla realtà che Dorothy Day aveva sempre mantenuto: il primo numero dedicato ai lavoratori neri sfruttati nelle dighe del sud, il secondo agli scioperi agricoli del Midwest, poi quello dei tessili e del lavoro minorile, i minatori e via così tra le categorie più colpite dalla crisi fino ad arrivare a temi come l’antisemitismo.

L’ESPERIMENTO delle case di ospitalità, ricoveri, fattorie e ripari notturni, poi diventato un movimento mondiale, per chi non aveva niente, dove poter vivere dignitosamente, è stato una diretta conseguenza. Molte ne sono state fondate, oltre che a New York, a Chicago e Detroit, Baltimora, Pittsburg, Buffalo, Los Angeles, Houma e in decine di altre città, sempre squattrinate ma essenziali. In questa liturgia di una comunità umana poggia la libera militanza di Dorothy Day.

Gli unici maestri, lo dice lei stessa in una conversazione con Robert Coles quando era già anziana, sono stati quelli e quelle da cui ha desiderato guadagnare rispetto mentre preparava loro una tazza di caffè o una minestra, i dimenticati di cui non importa niente a nessuno e cui aveva fatto spazio durante tutta la sua vita, viandanti che le hanno concesso il dono più grande, quello di ascoltare in silenzio la propria storia mettendo fine a una lunghissima solitudine.