«Nella stanza 202 / le pareti non smettono di parlarti / Non ti dirò mai cos’hanno detto / Quindi spegni la luce e vieni a letto» (In room two hundred and two / The walls keep talking to you / I’ll never tell you what they said / So turn out the light and come to bed): è il ritornello della canzone In Room 202 di Edgar Leslie , Bert Kalmar and Dave Harris, del 1919, che racconta la storia di Kitty Kane, che sposò un gangster e si suicidò nella stanza 202 di un albergo di Chicago. Hôtel du Pavot, Chambre 202 è il titolo di un’istallazione dell’inizio degli anni settanta di Dorothea Tanning: una stanza con figure di stoffa che emergono dalle pareti o si fondono con l’arredamento. Le memorie dell’infanzia, gli incubi della notte, l’affiorare dell’inconscio, l’importanza del materiale povero, l’affermazione del soffice su una tradizione scultorea che ha sempre privilegiato il duro (della pietra o del marmo) e infine lo straniamento del corpo, deforme, rispetto allo spazio, accogliente, fanno di quest’opera un manifesto delle inquietudini e tensioni creative di un’artista che per molti è stata solo «la moglie di Max Ernst» (che per lei lasciò Peggy Guggenheim) e per altrettanti «una seguace del surrealismo» (che in effetti all’inizio senz’altro fu).
La stanza è ora in mostra fino al 9 giugno alla Tate Modern di Londra nell’ambito della retrospettiva dedicata a Dorothea Tanning, già al Museo Nacional Centro de la Reina Sofia a Madrid, la più grande e sistematica dopo la sua morte avvenuta nel 2012, a oltre cent’anni (catalogo a cura di Alyce Mahon, con scritti di Ann Coxon e Idoia Murga Castro, Tate Publishing, £ 30,00).
Nata nel 1910, Dorothea ha visto un secolo intero di arte contemporanea, ma è rimasta sempre fedele alla sua unica ossessione: il surrealismo, che è stato per lei la ricerca della possibilità di vedere l’immagine nascosta, quella che non si rivela e non si concede alla vista, ma solo allo sguardo in profondità, se la prima è un senso e il secondo un esercizio – «volevo guidare l’occhio dentro spazi dove ci potesse essere un’immagine finora mai vista (some never-before-seen-image)», diceva. Ecco perché la stanza degli anni 1970-’73 è un ingresso perfetto nel suo laboratorio concettuale e visivo, dove l’arte incontra la psicoanalisi e la religione, all’insegna dell’invisibile, del misterioso e del sacro.
«Per piacere, non chiedetemi di spiegare», supplicava nel video girato per lei da Peter Schamoni qualche anno dopo, Insomnia (1979): «io posso solo descrivere». Come se l’intellettualizzazione non le competesse, perché la sua esperienza si colloca interamente nel visivo, che è appunto il suo, peculiarissimo, surrealismo, continuamente magico e decisamente onirico. Tutto è autobiografico per lei, perché siamo prigionieri della nostra biografia, sottolineava nello stesso video, una metadichiarazione dell’artista ormai affermata e anziana: «tutto quello che ho fatto l’ho fatto per sfuggire dalla mia biografia, ma dietro una porta se ne apre sempre un’altra, anzi un’infinità di altre». La porta è una costante della sua pittura, da Birthday (1942), che marcava il suo ingresso nel surrealismo all’insegna della possibilità attraverso una serie di porte aperte le une sulle altre, a Maternity (1946-’47), dove le porte aprono sul prima e sul dopo, a Door 84 (1984), dove una porta reale divide la tela in un gioco di specchi: metafora cronotopica, che apre e chiude piani e tempi, la porta è il confine tra ciò che è al di qua, dove ci orientiamo con l’esperienza, e ciò che al di là, dove le identità entrano in crisi, come se a guidarla ci fosse sempre e solo Alice. E come non pensare a quell’aprire le porte della percezione che da William Blake e Aldous Huxley conduce fino al più psichedelico dei gruppi rock del Novecento?
La sua fedeltà al surrealismo è fedeltà di esplorazione e direzione, ma non significa affatto immobilismo stilistico e formale: da surrealista quasi grafica nelle sue prime prove a surrealista allucinata e visionaria, ai confini dell’arte astratta, nelle sue ricerche, a partire dagli anni cinquanta, Dorothea ha attraversato l’illustrazione pubblicitaria, la luminosità pastosa, lo sfuocato onirico e le istallazioni tessili. Lavorava coi pennelli, ma anche con la macchina per cucire e la macchina da scrivere. Un’altra rappresentazione sintetica della sua attività nel suo insieme è nella tela Stanza del 1978, dove si visualizza quella morte dello scrittore di cui aveva parlato circa dieci anni prima Roland Barthes: ripiegata sulla sua macchina da scrivere, la figura dell’artista si scompone, come muovendosi a scatti, mentre la carta si allunga, l’ombra l’avvolge, una mano la chiama fuori dalla tela e un mostriciattolo la tiene ancorata alla terra. La figura del mostro è senz’altro un’autocitazione di Birthday, che aveva segnato la sua adesione al surrealismo, come se l’incontro con Max Ernst, che aveva suggerito il titolo allora e che da poco era scomparso al tempo di Stanza, iscrivesse tutta la sua esperienza di confronto con l’alterità, prima di ripiegarsi su se stessa, in una meditazione sempre più coerente sul trascendente, che si manifesta solo dove il confine sfugge e il corpo si trasfigura, come avviene in tutta la sua ultima produzione, a partire dagli anni ottanta. «Non vedo come si possa non essere assolutamente affascinati dalla forma umana, l’involucro meraviglioso con cui attraversiamo la vita», dichiarò: «Perché non riconoscerlo e cercare di dire qualcosa su di esso? Ecco, quello che cerco di dire su di esso si chiama trasformazione». È la voce della poetessa a parlare, qui, quando alla pittura affiancò la scrittura di sé, tra poesie e memorie.
La mostra procede opportunamente per temi anziché seguire solo la cronologia della sua vita, in modo da fare della sua esperienza una riflessione costante sull’arte come perturbante, occasione di esplorazione di un aldilà che è sempre immanente, inquieto presente, dove si confondono percezione e coscienza dell’immagine, materiale e immateriale, visivo e visionario, il rimosso e il riemerso. Ossessionata dai fantasmi familiari e dal perbenismo borghese, cui dedica alcune delle tele più politicamente orientate contro l’autorità patriarcale e la tavola imbandita, Tanning dischiude lo spazio dell’oltranza, che è tanto oltranza visiva, perché entriamo in un mondo che disturba, quanto oltranza ideologica, perché siamo costretti a fare i conti col soprannaturale. È proprio l’Unheimlich freudiano a rivelarsi nella sua tela più famosa, che fa da manifesto alla mostra, Eine Kleine Nachtmusik (1943), dove in un corridoio d’albergo, con tre porte chiuse e un’altra socchiusa, una bambina (o una bambola) dai lunghi capelli neri ritti verso l’alto e i vestiti stracciati contempla un enorme girasole che si disnoda ai suoi piedi, mentre un’altra bambina dai lunghi capelli biondi e i vestiti similmente stracciati le sta accanto con le spalle appoggiate allo stipite della prima porta chiusa, rivolta a occhi chiusi nella direzione opposta: l’intersezione tra animato e inanimato, la trance, la cecità, il doppio, le coincidenze e ripetizioni, la morte apparente, la confusione tra realtà e immaginazione e la presenza di un genio maligno sono le otto cause del «perturbante» secondo Freud, che sembrano tutte consapevolmente racchiuse qui per provocare quel disagio estetico che è la vera forma della dissonanza cognitiva da cui nasce la paura, che produce choc.
Lo spazio della casa, dove ci si dovrebbe sentire sicuri e invece emerge il disordine (davvero difficile sottrarsi a Van Gogh), turba, confonde, scompiglia, ma provoca anche bellezza, perché è meraviglioso, facendo incontrare thauma e trauma, sconvolgimento estetico e ferita ancestrale. La casa, la stanza, la porta, la tavola sono tutti luoghi del disturbo, dove l’ordine apparente cela ciò che è stato occultato, come nella bellissima La Truite au bleu (1952), dove la trota offerta sul piatto alla bambina seduta da sola alla tavola da pranzo alza la testa e si specchia nelle tante trote che galleggiano sotto la tavola, mettendo in crisi, umoristicamente, il confine tra la vita e la morte, il crudo e il cotto, il mangiabile e il sacrilegio.
Proprio perciò, pensando ai meccanismi di alienazione e spiazzamento che le sono propri, non si potrà fare a meno di osservare quanto un’artista così intensamente gotica si rivolga anche e soprattutto alla tradizione pittorica europea, che traspare dai rimandi continui alle figurine di Bosch e ai corpi di Rubens, fino a quella istallazione De quel amour in lana e metallo (1970, dal Centre Pompidou) che è una vera e propria citazione dei Prigioni di Michelangelo. Tutt’altro che chiusa nel recinto del surrealismo, Dorothea Tanning mostra la sua via per aprire le porte della percezione, andare al di là dello specchio e tuffarsi nell’abisso.