In silenzio, nella discrezione con la quale aveva sempre cercato di tenere avvolta la sua vita privata, Doris Lessing, la Signora della letteratura inglese, carica di onori e di anni, ci ha lasciato. La più amata da intere generazioni di lettrici ma anche di lettori, la più prolifica sul piano della scrittura, la più ribelle e intransigente su quello delle ideologie e dei principi. Brusca nei modi verso il mondo esterno quanto calda e generosa nella comunicazione interpersonale. Insofferente ai limiti dell’aggressività verbale verso le molte palesi espressioni della stupidità umana travestite da formalità e belle maniere, quanto lucida e attenta osservatrice del mondo che la circondava. Mondo che in novantaquattro anni di vita e oltre sessanta di ininterrotta produzione letteraria, Lessing ha raccontato in una amplissima gamma di sfaccettature, in molti casi anticipando ideologie e fenomeni – politici, culturali, di costume – che solo anni più tardi si sarebbero manifestati in tutta la loro forza.
Come quel grande tema della condizione femminile che l’autrice esplora e al quale dà voce in una serie di romanzi epocali che pubblica già tra il 1952 e il 1966, dapprima in una serie dall’emblematico titolo di I figli della violenza e, successivamente, nel più celebre The Golden Book, quel Taccuino d’oro che nel 1962 irrompeva come un maglio a scuotere la letteratura inglese, ma non solo, su temi che di lì a pochi anni il movimento delle donne avrebbe fatto propri, anche grazie alla consapevolezza acquisita attraverso la lettura di romanzi, racconti e saggi di Doris Lessing.

Confini ultimi

Una straordinaria preveggenza la sua, con relativa lucidità di analisi, che già negli anni Settanta un’altra intellettuale inglese, Margaret Drabble aveva individuato nell’opera di Lessing, che in un articolo uscito su Ramparts, definiva «una Cassandra in un mondo sotto assedio».
«Doris Lessing è un profeta che annuncia la fine del mondo», scriveva Drabble. «È molto letta ma non così ascoltata, visto che, a suo giudizio, ben poco si può fare per impedire la catastrofe che ci attende. Ma perché, allora, continua a scrivere? Perché, afferma, noi tutti dobbiamo continuare a vivere, e scrivere, come se». Lessing, proseguiva Drabble, «scrive dal confine ultimo della distruzione, nonostante che il punto di vista sia cambiato, in lei, nel corso degli anni: oggi vede un mondo avvelenato e intossicato, là dove un tempo presagiva la rivoluzione (…) Oggi le sue profezie vengono accolte con un senso di impotenza. La sua fama di scrittrice in Inghilterra non potrebbe essere più grande, sebbene a lei non importi niente del mondo letterario. Eppure ha lettori davvero attenti, perché è quel genere di scrittore che cambia la vita delle persone. Il suo Taccuino d’oro è stato definito dalla critica come ’la Bibbia delle nuove generazioni’. Non credo a lei importi nulla di questa definizione, tuttavia descrive bene i sentimenti e le emozioni che questa lettura riesce a suscitare».
E che a Lessing non importasse granché dell’establishment letterario se ne è avuta prova anche nell’ottobre del 2007 quando le viene conferito il Nobel per la letteratura. Un premio atteso per decenni, ma sempre negatole, sembra, per la decisa opposizione di alcuni membri dell’Accademia di Stoccolma. Quel giorno di ottobre Lessing, che non era stata preavvertita, viene informata dai fotografi e giornalisti che, festanti, si accalcano fuori della sua casa londinese, mentre lei è fuori a fare la spesa. Rientra a casa, guarda infastidita quell’assembramento e a chi le dà la lieta notizia risponde irritata che ormai quel premio non la interessa più. È arrivato troppo tardi. Poi si gira, poggia a terra la borsa della spesa e, seduta sui gradini esterni della sua casa, rilascia qualche commento di circostanza, e niente di più.
Lessing non andrà a Stoccolma a ritirare quel premio; al suo posto andrà il suo editore per leggere una breve comunicazione della scrittrice. Più avanti, arriverà il discorso vero e proprio, una riflessione appassionata sulla necessità di leggere, sulla importanza che i libri hanno avuto nella sua vita, anche in Africa; su come, proprio in Africa, in quella parte del continente, lo Zimbabwe, nella quale aveva trascorso i trent’anni più importanti della sua vita e alla quale tornava ogni volta che poteva, i giovani soffrissero, oltre al resto, anche di «una fame di libri».
L’Africa, già. Il più grande regalo che la vita le aveva fatto, come ripeteva spesso. La terra che le aveva insegnato l’amore e il rispetto per le persone, le cose, gli animali, la natura. Che aveva fatto di lei, come anni dopo avrebbe riconosciuto, una militante e una ecologista, una fautrice dei diritti umani e della emancipazione femminile. La Rodesia, oggi Zimbabwe, nella quale era cresciuta come donna, dove aveva cominciato a lavorare, a fare politica, dove si era sposata due volte, giovanissima, la seconda rimanendo presto vedova di un militante comunista di origine tedesca, Gottfried Lessing, fatto uccidere in un’imboscata: l’uomo del quale per tutta la vita avrebbe portato il cognome e dal quale avrebbe avuto il terzo dei suoi tre figli, quello più bisognoso di attenzioni e di cure, il solo che porterà con sé in Inghilterra quando nel 1949 decide di lasciare l’Africa e trasferirsi a Londra per tentare la fortuna nel campo della letteratura.
Lo fa portandosi appresso un baule pieno di libri, suo figlio e il manoscritto del primo folgorante romanzo, L’erba canta, prima narrazione di largo respiro che arrivava dopo due racconti pubblicati su una rivista sudafricana nel 1948. Da quel momento in poi, la sua vita coinciderà con la scrittura, la pagina sarà lo spazio del suo dialogo con il mondo.
Un mondo osservato e passato al vaglio di una insaziabile curiosità verso l’umano e di una intelligenza affilata e senza compiacimento che, nel tempo, le avrebbero consentito di dare alle stampe oltre cinquanta romanzi, in gran parte assai corposi, con tematiche che stilisticamente spaziano da una solita forma narrativa realista, vicina a quella dei grandi narratori ottocenteschi (ai quali è stata spesso paragonata), a romanzi di fantascienza scaturiti in una fase della sua vita nella quale la scrittrice si avvicina al Sufismo e alla sua filosofia.
Accanto ai romanzi non vanno tuttavia dimenticate le numerose raccolte di racconti brevi, molti ambientati in Africa, attraverso i quali indirettamente ricompone il mosaico di una parte del continente che le è rimasta nel cuore. E gli altrettanto numerosi racconti londinesi, che spesso gettano luce sulla vita degli ultimi, di quanti hanno più difficoltà a venire a patti con la quotidianità della vita, specialmente gli anziani.

L’età della trasgressione

La vecchiaia fa scandalo, Lessing racconta, perché porta in sé qualcosa di incontrollabile e indecente, che le istituzioni, i servizi sociali – quelli inglesi in particolare – si prodigano da sempre a contenere e controllare. Lei, che della vecchiaia ha raccontato spesso gli aspetti trasgressivi, come il bisogno di esprimere l’amore, o semplicemente di decidere della propria vita, anche in una fase estrema della vita stessa. Di questa, narrerà anche il risvolto contrario: la vecchiaia e il diritto alla espressione della sessualità, alla ricerca della felicità, che spesso la società condanna quando a volerla sono le donne. E poi, sul versante generazionale opposto, il mondo dei bambini, l’infanzia, la fase della vita nella quale più si ha bisogno di essere visti ed ascoltati, ma proprio quella talvolta nella quale ciò non accade.
Di questo parlerà a lungo con riferimento alla sua, di infanzia, al dolore di non essersi sentita «vista» da sua madre, alla quale la legherà per tutta la vita un sottile rancore. Ne parlerà a lungo del primo volume della sua autobiografia, Sotto la pelle, ma soprattutto in un breve e struggente romanzo intitolato Il quinto figlio, storia di un bambino «diverso» che sconvolge l’equilibrio di una «famiglia perfetta e felice», mettendo in crisi ogni rapporto e creando nella madre un profondo senso di colpa. E poi racconti di donne colte in un momento particolare della vita di ciascuna, come ne L’estate prima del buio, La buona terrorista o, ancora, La noia di essere moglie
Lessing è anche tra i primi a scrivere, in tempi non sospetti, sull’Afghanistan, paese che va a visitare riportandone la sensazione di un mondo che sta per esplodere; o sullo Zimbabwe dopo l’indipendenza del 1981, sul quale torna più e più volte. E ancora vanno ricordate le sue opere teatrali, Commedia con la tigre e A ciascuno il suo deserto, e le più recenti riflessioni su Il senso della memoria.
Perché narrare si deve, è il messaggio che Doris Lessing sembra lasciare in eredità ai suoi lettori. Narrare è importante, e non è solo appannaggio dei narratori di professione. Lo storyteller è dentro ognuno di noi, ci dice. I racconti abitano in noi, e da tempo immemore, se solo consentiamo loro di farsi ascoltare.
«Perché nel profondo di ciascuno di noi c’è un cantastorie. Un narratore che è sempre con noi. Quand’anche il mondo in cui viviamo venisse travolto dalla guerra, con tutto l’orrore che possiamo facilmente immaginare….Se un’alluvione inondasse le nostre città, e il mare si sollevasse… quel cantastorie continuerebbe ad esistere, perché, nel bene e nel male, è la fantasia a darci una forma, a crearci, a tenerci insieme. E anche se fossimo feriti, dilaniati, distrutti, sarebbero i nostri racconti a rimetterci in piedi. Sono il cantastorie, il creatore di sogni e il costruttore di miti, cioè la nostra fenice, a rappresentare la parte migliore di noi, quella più creativa».