Dora Maar è stata una grande artista e fotografa. Una delle poche di quegli anni parigini impregnati degli umori di un conflitto appena concluso e di un altro che si avvicinava con smisurati balzi. Ma la sua statura professionale è stata oscurata dalla presenza ingombrante di Pablo Picasso. Sette anni di tormentata relazione (dal 1936 al 1943) con l’artista di Malaga non le procurarono soltanto quella precarietà emotiva che la accompagnò fino al termine dei suoi giorni, ma ebbero un costo altissimo: la condanna a una damnatio memoriae, un’operazione di cancellazione storica che la confinò nell’ombra, facendo cadere nell’oblio gran parte del suo genio creativo. Di lei, ricordiamo la sua funzione di musa, il volto piangente e scomposto di un celebre quadro picassiano (La Femme qui pleure au chapeau), l’interesse della tv e del cinema (Carlos Saura) tributato alla sua personalità, sempre però coniugata – se non subalterna – a quella dell’altro. Poco sappiamo, invece, della sua produzione fotografica, di quei détournement visivi e visionari che era solita proporre, anche con ironia. Perturbanti poi, come Père Ubu, mostro favolistico che prese vita da un feto di armadillo.

La premessa serve per spiegare che, se oggi si vuole risarcire giustamente la sua figura con una mostra dedicata tutta alla sua arte, non giova granché il titolo dell’esposizione del veneziano Palazzo Fortuny che si aprirà nella simbolicissima data dell’8 marzo: Dora Maar, nonostante Picasso. Dev’essere proprio una maledizione ciclica, la sua: l’artista che i giornali – alla sua morte avvenuta nel 1997 e con l’asta in corso dei suoi beni – definirono «Sacrificata al Minotauro», non riesce a liberarsi di Picasso. I due fantasmi, evidentemente, tornano a congiungersi. Un destino crudele. Lo stesso che la allontanò dalla carriera fotografica (Picasso la voleva pittrice, cosa a cui lei si piegò con un talento mediocre: probabilmente, era un campo che l’amante considerava più controllabile e meno scivoloso per il ruolo di Pigmalione che si era ritagliato) e pose fine alla sua partecipazione attiva alla sinistra francese degli anni Trenta, partecipazione che aveva coinciso con il suo avvicinamento al movimento surrealista, quindi alle istanze d’avanguardia più spinte.

La giovane Dora, già compagna di George Bataille, che il padre del cubismo conobbe seduta ad un tavolo dei Deux Magots mentre sfidava la sorte conficcando il coltello fra le sue dita (si racconta che lui chiedesse come pegno il guanto insanguinato, a riprova di un «errore» commesso), ha dovuto affrontare un peso esistenziale che l’ha trascinata in un isolamento durato quasi cinquant’anni e l’ha costretta a perdere parti di sé. Neanche la terapia con Jacques Lacan (presentatogli dai coniugi Eluard, suoi amici intimi), tantomeno i ripetuti e devastanti elettroshock sono riusciti a far riemergere in lei il desiderio di plasmare il mondo, come la camera oscura le aveva insegnato fin da adolescente.

Promossa dalla Fondazione Musei Civici di Venezia, su progetto di Daniela Ferretti e a cura di Victoria Combalía, massima biografa di Dora Maar, la mostra di Palazzo Fortuny porterà a Venezia anche alcune opere inedite. In particolare, due fotocollage, Aveugles à Versailles e Villa à Vendre. Nel primo, l’artista riunisce tutti i ciechi incontrati e immortalati nel tempo – dall’orchestra di non vedenti di Barcelona, che ritrasse nel suo viaggio solitario in giro per la Spagna fino a un bambino dormiente, con gli occhi chiusi. Lo stato di trance sarà presto una ossessione ricorrente. E quando non invera nei suoi scatti la poetica surrealista, sono gli abitanti della strada ad attirare la sua attenzione.

Per Dora Maar, documentare con i suoi reportages una realtà parigina indicibile (frequentava assiduamente gli zonards, i baraccati delle periferie) era un impegno politico a tutti gli effetti. Come fotografa di strada, è stata la Diane Arbus europea, pur non ostentando necessariamente l’eccentricità per spiegare l’inspiegabile, non inseguendo il freak come presenza critica da agitare contro i benpensanti. Come Diane però, amava gli spazi magici, le deviazioni dall’ordinario, la vicinanza con i derelitti, i luoghi della follia, il mondo dell’infanzia per i suoi tratti primitivi, non colonizzati. Con le sue fotografie, Dora aiutava il quotidiano a deragliare, a trasformarsi in zona creativa, non più banale.

Figlia di un famoso architetto croato e di madre francese, nata Henriette Theodora Markovitch (1907-1997), Maar visse i primi anni fra Parigi e Buenos Aires, libera di seguire le sue inclinazioni. Accademia e scuole di fotografia la convinceranno a tuffarsi nella testimonianza diretta, prima firmando insieme a Kéfer (con cui aveva aperto uno studio), poi proseguendo da sola. Cartier Bresson e Brassaï entrarono presto nel suo orizzonte, ma il mondo di Montparnasse la rese immune dalla tentazione di divenire una semplice allieva. Sperimentò da sé, realizzando ritratti (in mostra, quello di Aube Breton, figlia di André), nudi, solarizzazioni, sovraimpressioni, mescolando scatti d’autrice con quelli commerciali, per la pubblicità e le riviste di moda. Nelle mostre surrealiste della metà degli anni Trenta, sarà sempre presente, anche a New York, nel 1936. Poi, il 7 gennaio dello stesso anno, Eluard la presentò a Picasso.