Comunque lo si giri, il Mes per l’Italia e per la maggioranza è un guaio. Accanto alla decisione, che chiamare sofferta è molto poco, sull’accedere o meno alla linea di credito aperta per fronteggiare il Covid, cioè a un prestito di 37 miliardi, rispunta una disfida che aveva tenuto banco e provocato tensioni a pioggia nella maggioranza mesi fa, poi passata in secondo piano in seguito alla pandemia. È la riforma del Mes, sostenuta nel dicembre scorso anche dal governo italiano, denunciata però da Forza Italia e dalla Lega perché in contrasto con quanto stabilito dal governo gialloverde con immediato irrigidimento anche dei 5S. La vicenda avrebbe dovuto risolversi nel marzo scorso. Tutto rinviato causa Covid ma l’Eurogruppo, che si riunisce informalmente oggi, vuole riaprire il caso e poi chiuderlo rapidamente perché la riforma dell’ex Fondo Salvastati è necessaria per completare l’unione bancaria, traguardo che l’Eurogruppo mira a tagliare entro novembre. L’ostacolo è la resistenza italiana. Le assicurazioni di Gualtieri non sono infatti bastate a tranquillizzare il Movimento.

Come sempre quando si tratta di Mes i termini reali della faccenda sono ambigui e sfuggenti. La novità principale della riforma è la creazione di un Fondo di risoluzione unico per le banche in difficoltà. Sarebbe finanziato dalle banche stesse ma in caso di crisi grave potrebbe chiedere l’intervento del Mes. Le paure dei 5S si appuntano, come al solito, sulla possibilità che il Mes imponga la ristrutturazione del debito in caso di aiuto non alle banche ma ai Paesi in difficoltà. In teoria il rischio di una ristrutturazione imposta all’Italia è inesistente. Per imporre la ristrutturazione sarebbe infatti necessaria una maggioranza dell’85% del capitale. Il nostro Paese detiene il 17,7% dello stesso e avrebbe quindi di fatto potere di veto. La riforma però prevede anche un percorso semplificato per la ristrutturazione, in base al quale la stessa potrebbe essere richiesta anche da una maggioranza qualificata degli investitori. La conseguenza negativa sarebbe doppia: da un lato l’aumento del rischio di essere costretti a ristrutturare, dall’altro una percezione di rischio maggiore che potrebbe spingere comunque gli investitori stessi a chiedere tassi più alti.

In realtà è un tavolo molto diverso da quello della nuova linea di credito ma il fatto stesso che l’Italia non acceda al prestito e ostacoli la riforma per lo stesso motivo, una sostanziale diffidenza nei confronti della Ue che costituisce l’ultima eredità dell’antico euroscetticismo pentastellato, costituisce evidentemente un problema che inizia a creare palpabile irritazione a Bruxelles.

Non è l’unico euroguaio per l’Italia. Il secondo deriva in realtà dai problemi del premier olandese, che deve fare i conti con un Parlamento che non si accontenta del “freno” strappato dopo notti insonni da Rutte al Consiglio europeo e vorrebbe controlli più stringenti sull’uso che l’Italia farà del Recovery Fund. Probabilmente anche per dare soddisfazione ai critici Rutte si è impuntato per subordinare la prosecuzione dell’erogazione dei cospicui fondi che partono da Bruxelles indirizzati a Ungheria e Polonia al ripristino dei diritti nei due Paesi che violano le disposizioni europee in materia. La risposta di Orban, assolutamente prevedibile e certamente prevista da Rutte, è già arrivata. È la minaccia di bloccare col suo veto il Recovery Fund. In realtà la rinuncia della Ue a un piano di vitale importanza come il Recovery è impensabile. Un rallentamento dei tempi però è possibile e anche questo per l’Italia sarebbe un grosso guaio.