«Uno dei problemi durante la prima fase della nostra carriera è stato il fatto di voler infilare dentro ai Massimo Volume tutto quello che arrivava da fuori, mentre ovviamente un gruppo non può contenere tutto. Ora invece abbiamo tutti degli sfoghi esterni, e questo è salutare, dopo 25 anni di carriera uno sente anche il bisogno di farsi delle amanti, per poi tornare a quello che resta il nostro progetto principale».

omincia così l’incontro con Emidio Clementi, Mimì, leader della band italiana capace di mescolare musica rock e letteratura, il sound di musicisti eccelsi e l’approccio narrativo e immaginifico di un frontman che si è inventato uno stile perché non sapeva cantare.
Da quando i Massimo Volume sono tornati, nel 2008, dopo due album che li hanno riportati sui palchi di tutta Italia, ritrovando fan storici ma anche incontrando il favore di giovani che non avevano fatto in tempo a conoscerli, le collaborazioni esterne del gruppo si sono moltiplicate.

Clementi ad esempio, dopo due anni in giro per la più remota provincia italiana con Notturno Americano, reading musicale dedicato al poeta bolognese Emanuel Carnevali, torna al disco con La guerra di domani (uscito il 5 febbraio per La Tempesta), prima pubblicazione per il suo nuovo progetto Sorge. Ad accompagnarlo c’è Marco Caldera («che ha quasi vent’anni meno di me»), produttore e fonico, al lavoro con i Massimo Volume fin da Aspettando i barbari, al primo disco da musicista.

Il nome della band è ispirato a Richard Sorge, agente segreto al soldo dei sovietici (pur essendo tedesco), ucciso per impiccagione in Giappone. E nel tentativo di esprimere questa doppia identità, la finzione continua che tutti siamo costretti a portare avanti, la distanza tra i ruoli che la vita ci costringe ad assumere e quello che veramente vorremmo, prendono vita i dieci brani che compongono La guerra di domani. Un album intimo, nato dai primi esperimenti di Clementi con il pianoforte, caratterizzato da un’elettronica affascinante, dove sincopi e sonorità quasi ambient danno forma agli evocativi spoken word. «Stavo imparando a suonare il piano, e un giorno ho detto a Marco che sarebbe stato bello fare un disco di blues elettronico» spiega, «poi scritti i primi brani il lavoro ha preso una sua strada. Mi è piaciuto lavorarci, ho lavorato molto con le rime, un po’ con l’hip hop, mi sono poi ispirato alle letture dei poeti beat».

La letteratura è sempre presente nei lavori di Clementi, che nei testi fa intravedere le sue doti di scrittore, raccontando storie capaci di essere ben collocate nel tempo e nello spazio eppure di sviare sempre dalla realtà, mescolando personaggi immaginari e affetti personali. I riferimenti sono molti, da Joan Didion al poeta Mark Strand, «autori che ho cercato di fare miei tanto da diventare parte del mio bagaglio personale. Dal disco, dalla sua atmosfera domestica , traspare una serenità data dalla consapevolezza di essere comunque riusciti a vivere di un sogno, di aver raggiunto obiettivi importanti, nonostante gli ovvi compromessi. E nonostante la coscienza di un tempo che passa e non torna più, con le sue inevitabili conseguenze, come nell’ultimo pezzo Quello che ho perso, in cui ad un brano del regista Kieslowski si alternano le voci degli abitanti del Vajont dopo la frana e l’inondazione del ’63. «L’idea di inserire le voci del Vajont è stata un’idea di Marco. Tutto il disco ruota attorno al tema della perdita e lui lo ha colto perfettamente, perché quella che fino a quel momento era intesa come perdita privata, con quel pezzo si apre alla storia, a un fatto di cronaca, diventa concreta».