Si diceva del falso d’arte. Se ne tentava una messa a punto a livello teorico. Con questo intento, stando ben aderenti ad alcune opere esemplari (nella fattispecie i falsi realizzati nel terzo decennio del Novecento da Federico Joni nei modi di Duccio di Buoninsegna e della sua cerchia, accolti fino a poche anni fa nei musei d’America e d’Europa) ci si è provati a tracciare alcuni specifici elementi e precise peculiarità del falso. Tra le altre una caratteristica del falso d’arte che non è possibile all’autore nascondere. Su questo aspetto inevitabile, che si rivela insito in ogni falsificazione artistica a partire dagli originali prescelti, vorremmo svolgere alcune ulteriori considerazioni. Mi riferisco al fatto che il falso d’arte, eseguito in un’epoca posteriore a quella degli originali ai quali si attiene, mentre persegue la resa pittorica nel minuzioso rispetto degli stilemi antichi, opera tuttavia in un’epoca più o meno lontana da quella in cui l’autore quegli originali realizzò. Quegli originali esprimono ai nostri occhi la loro autenticità per l’aura che da essi promana.

L’aura, ovvero la patina che il tempo ha recato e che dal dipinto si irradia. Emana non esclusivamente dai suoi connotati formali, ma altresì, e con intensità forse maggiore, trascorrendo ed avvolgendo l’opera nella sua irripetibile fisica datità di manufatto. L’aura si conserva in un cretto o in una caduta di colore e spira d’attorno e per entro il dipinto, avvolgendo, dico, nella sua integrale fisicità il quadro. Nei casi che teniamo ad esempio, le opere ‘trecentesche’ di Joni, l’aura che le avvolge illude la loro autenticità. L’autenticità è innanzi tutto sensazione, un sapore che si compone di ingredienti che sono formali (lo stile che contrassegna la rappresentazione del soggetto) e sono fisici, materiali: la tavola lavorata dal tarlo; la foglia d’oro sfrangiata; il pigmento consunto. Un graffio, una lacuna non risarcita per la caduta dell’appretto. L’autenticità che riconosciamo ai quadri a fondo d’oro che risalgono al Trecento sta per noi, in preminente misura, nei molteplici segni che il tempo ha loro impresso nel suo secolare trascorrere. È questa ‘autenticità’ che il pittore impegnato nella realizzazione di un falso d’arte è chiamato a illudere e a ricreare. Non solo, dunque, il suo lavoro deve attenersi ai moduli formali della pittura antica, ma deve ottenere ‘autenticità’ al manufatto che viene elaborando. Deve, cioè, sì fare che quella immagine che delinea rinvii in modo convincente allo stile del celebre artista antico, ma operar in modo tale che il rinvio al passato, per non suonare replica o ricalco – dunque falso – appaia come proveniente dal passato. Come un giungere a noi, la tavola dipinta, ora qui da un allora. Allora, il determinato tempo di Duccio e dei suoi collaboratori. Tempo racchiuso, contenuto entro le forme della pittura di Duccio sotto specie di aura. Conferire aura è la ardua prova alla quale il falsario d’arte sottopone la sua maestria. Ma conferire il tempo suo proprio, cioè la sua età all’antico che si viene costruendo in laboratorio, è un’operazione che si svolge – inevitabilmente – nel tempo proprio del falsario, nella sua attualità. È questo intrecciarsi di due modalità temporali – età e attualità – nel medesimo costrutto formale che sovrappone un chiasmo in ciascun rifacimento d’arte che intenda creare l’antico.

Fintanto che il falso d’arte è recepito nell’epoca della sua fattura, conoscitori ed esperti ne coglieranno solo l’aura originaria. Nell’arco di alcuni anni, però, le due modalità temporali costitutive del falso d’arte – età e attualità – riprenderanno la loro autonomia. Accanto all’aura antica aleggerà l’aura dell’epoca dell’autore moderno. Un effetto di miscele non compatibili, in sospensione separata. Si rivela allora (è anche il caso di Joni) come il falsario parli del Trecento di Duccio e lo illustri con i vocabolari e l’ermeneutica del suo tempo. Questa ‘rivelazione’ comporta ulteriori riflessioni, preso atto che ogni opera d’arte si mostra diversa a seconda dell’epoca dalla quale la si riguarda. Ovvero dalla latitudine del gusto entro la quale viene interpretata e fatta propria, ri-vissuta.