«Le storie erano un incrocio tra il picaresco e il poliziesco, e almeno una, quella che per me continua a chiamarsi Svaghi provinciali, si svolgeva a Venezia, d’inverno. L’atmosfera era crepuscolare e pericolosa, la topografia era complicata da un gran numero di specchi, i principali avvenimenti si compivano dall’altra parte dell’amalgama, dentro un palazzo abbandonato». Questo passo, tratto da Fondamenta degli Incurabili, si riferisce presumibilmente al racconto L’incontro di Henri de Régnier (1864-1936), e di come la sua lettura, associata a quella di altri testi dell’autore francese, avesse rappresentato un forte impulso per Brodskij a compiere un pellegrinaggio laico nella città lagunare, immagine speculare della sua fantasmagorica Pietroburgo. Da parte sua Régnier vi soggiornò ben dodici volte, tra il 1899 e il 1924, sia con la moglie Marie de Hérédia, anch’essa poetessa e scrittrice con lo pseudonimo maschile di Gérard d’Houville, sia in eremitico isolamento, a stretto contatto con venature di masegni e criptiche indicazioni di nizioleti. In città sono ancora visibili un paio di lapidi, di cui una nella famigerata Ca’ Dario, che ricordano i soggiorni in quella che Régnier stesso definiva la città dove le maree trasformano «piazza san Marco in un lago dalle piccole onde agitate sulle quali sembra vogare, come un bucintoro di marmo e di smalto, il vascello bizantino della basilica». Lo stesso Proust che, sul crinale tra i due secoli, si avventura a meditare in laguna sulle pagine dell’amato Ruskin, di cui ha intrapreso un progetto di traduzione delicato come le mansioni delle impiraresse osservate durante le sue crepuscolari flâneries, non lesina ammirazione per il romanzo La Double maîtresse e per «la Venezia carnevalesca e postuma di Régnier».

Nonostante la sua produzione sia imponente, annoverando una serie di testi ambientati proprio a Venezia (ci limitiamo qui a citare le Esquisses vénitiennes, 1906, i romanzi L’Altana ou La Vie vénitienne, ’28, e Le Voyage d’amour ou l’initation vénitienne, ’30), nel nostro paese Régnier resta un autore poco conosciuto e tradotto, se si eccettua qualche isolata iniziativa editoriale, come quelle affidate a Il ricordo e altri racconti inediti (Via del Vento, 2018) e Il trifoglio nero (Aurora Edizioni, 2021). Eppure un narratore importante come Bernard Quiriny ha dichiarato il suo debito nei confronti di Régnier, licenziando nel 2013 il saggio Monsieur Spleen per le Éditions du Seuil; e Patrick Besnier gli ha dedicato un’accurata biografia per Fayard nel 2015. È perciò da salutare con interesse la pubblicazione, da parte di Robin Edizioni, dei Racconti veneziani («Biblioteca del Vascello», pp. 248, € 16,00), ottimamente curato e tradotto da Albino Crovetto. Si tratta della versione dei Contes vénitiens, editi da Le Livre nel 1927, con illustrazioni di Charles Martin, qui riprodotte nel testo, che risentono dei motivi dell’art déco. L’insieme dei racconti inediti è vòlto a comporre un disegno musivo di raffinata fattura, in cui ricorre il tema del doppio, come sottolinea il curatore nella nota finale, che mette in rilievo le corrispondenze con alcuni capisaldi narrativi di Gautier, Poe, Hoffmann, Maupassant.

Molto esauriente è il saggio introduttivo di Marco Catucci intitolato Henri de Régnier a Venezia che ripercorre, con l’ausilio di un discreto apparato iconografico, i vagabondaggi e le frequentazioni dello scrittore simbolista nel dedalo di calli e fondamente. Non è un caso che Al caffè Quadri, in cui si rievoca il crollo del campanile di San Marco del 1902 rapportandolo al naufragio di una vicenda sentimentale, sia dedicato a Ugo Ojetti che ritagliò a Régnier un elzeviro sul Corriere della Sera del 22 febbraio 1911. Era la Venezia di Fortuny e D’Annunzio, assiduo della Casetta Rossa di proprietà del principe Hohenloe, in cui furono ospitati anche Rilke, Hofmannsthal e la Duse. D’Annunzio non mancherà di riservare più di un’attenzione a «Sora Notte», come aveva soprannominato Marie de Hérédia, frequentata ad Arcachon, dove la sorella minore Louise, sposata con Pierre Louÿs, era degente in sanatorio a causa della tubercolosi (si veda la manciata di lettere, emblematicamente firmate Frate Foco, raccolte da Nicola Muschitiello in Buona sera, cara Notte, edite da Filema nel 2001). D’altronde quello tra Régnier e Marie, figlia del poeta parnassiano José-Maria de Hérédia, non fu un matrimonio felice, cadenzato dai frequenti tradimenti di quest’ultima, soprattutto con il cognato Pierre Louÿs – da cui ebbe un figlio, Pierre, soprannominato Tigre – che non esiterà, da buon libertino, a immortalare le fattezze naturali dell’amante in una serie di foto su cui Francesco Maria Colombo ha ricavato il canovaccio del romanzo Il tuo sguardo nero (Ponte alle Grazie, 2018). Le prodezze erotiche delle tre sorelle Hérédia che, al contrario della trimurti, dispensano indiscriminatamente il loro anelito alla vita, confluiranno in quel vademecum di depravazioni che è Trois filles de leur mère. «Ti bacio con tutte le mie labbra» scrive in maniera quanto mai eloquente Marie a Pierre Louÿs, negando al contempo qualsiasi confidenza al marito, sempre più impermalito sotto lo sfavillìo monotono del monocolo.

Il retaggio ottocentesco è sempre presente nella narrazione di Régnier che esula da qualsiasi aspirazione modernista, facendo ricorso a stilemi non di rado anacronistici. Il tono è classico, misurato, senza orpelli di sorta; non c’è il gusto di stupire a tutti i costi, come fanno Huysmans e Mirbeau. Parecchie vicende sono incasellate in un reliquiario del XVIII secolo dove, al posto di ossa calcinate, abbondano maschere e cineserie. Si pensi a Il calamaio rosso, racconto privo di trama, di taglio impressionistico, tutto giocato sul fascino esercitato da questo oggetto settecentesco acquisito in uno degli innumerevoli negozi di antiquariato di cui era disseminata all’epoca la Serenissima. I riferimenti al riguardo sono molteplici, come traspare da Il ritratto della contessa Alvenigo, in cui un dipinto di Longhi esercita un potere allucinatorio sul protagonista, portandolo alla rovina, o Il rimpianto, dove si descrive l’occasione della vita mancata per un attimo di esitazione, sullo sfondo di una bottega di robivecchi in cui si espone «una vetrina laccata di rosso e tutta dipinta di stravaganti e minuziosi Cinesi d’oro». La breve vita di Balthasar Aldramin veneziano, Il bevitore e Il testamento del Conte Arminati rinviano a una topografia sentimentale dai tratti riconoscibili, come nei due palazzi abitati dalla coppia di amici protagonisti, in cui vengono adombrati i profili contigui di Ca’ Barbaro e Ca’ Dario, rimodulati dai riflessi salmastri del Canal Grande.

Ma il momento più alto è, senza dubbio, il citato racconto L’incontro che chiude la raccolta, anticipato nel volume eponimo del 2018 della medesima collana. Qui Régnier opera una sorta di narrazione speculare, basata sul tema del doppio che non può non rinviare al gioco degli equivoci creato da Goldoni nei Due gemelli veneziani. La vicenda è ambientata in un recente passato che sfuma nella perduta magnificenza di un palazzo avito, un tempo abitato da un cavaliere settecentesco dall’improbabile nome di Vincente Altinengo. Tale residenza viene presa in affitto dal protagonista su consiglio dell’amico Tiberio Trentinaglia, ricalcato sulla fisionomia di Salvatore Arbib, mercante d’arte che donò due mummie egizie al Museo Civico Correr, allora ubicato presso il Fondaco dei Turchi. «Ho letto il Presidente di Brosse e praticato Casanova, ma Venezia mi basta in sé stessa e non ho bisogno del suo passato per subire il fascino del suo vivo incanto» precisa lo stesso narratore che abbisogna, al contrario, di suggestioni che emergano dall’oblio per istituire un’eccentrica galleria di personaggi simili a quelli che si susseguono al Musée Grévin. Qui si delinea sullo sfondo il Casino degli Spiriti, immortalato nel 1959 da Willy Ronis mentre una silfide attraversa nella caligine estiva una passerella in legno delle Fondamente Nove. Il racconto si pone sulla scia delle ghost stories, ottemperando al preciso disegno di dare voce all’inesprimibile, coniugando il rigore del logos ai lineamenti spiraliformi delle larve.

Gli ectoplasmi di Régnier, dotati di bautta e tabarro, rivendicano la propria autorevolezza attraverso un’immagine frantumata all’infinito nel trompe-l’œil di specchi riprodotti in altri specchi, mentre cartigli di nuvole tiepolesche e preziosi stucchi che si sgretolano lungo mura sbreccate aspirano alla carità di una dissoluzione analoga a quella tratteggiata con impercettibile cinismo dal Baron Corvo. A noi, ormai orfani del bello, basta questo appunto estrapolato dall’Altana: «I passi risuonano sul lastricato e ci si vergogna del loro suono umano».