La narrativa sulle vicende del sistema internazionale che prevale nel mondo che si sente e si fa sentire ovunque si fonda su un assunto che era o si è rivelato fallace. Le analisi dei fatti principali e anzitutto delle crisi più gravi, e le politiche relative, scontano un vizio d’origine. La fine della guerra fredda è stata scambiata per l’inizio di una storia senza storia in cui, sullo sfondo di un incombente e mal definito clash of civilisations, avrebbero operato fattori omologanti che si riassumevano nella globalizzazione. La frattura che si produsse alla fine del Novecento come “secolo breve” evidenziava in realtà una crisi di sistema che riguarda l’economia, la tecnologia e le comunicazioni oltre alla politica. La stessa fine dell’Unione Sovietica e quindi della guerra fredda fu probabilmente più una conseguenza della crisi che una causa di quello che sarebbe stato definito da Bush padre il Nuovo ordine mondiale.

Da quella crisi il mondo non è mai uscito. Le vecchie regole, per quanto stringenti e ostiche fossero, non sono state rimpiazzate da nulla di altrettanto solido e condiviso. Il bipolarismo è sfociato in un “unipolarismo imperfetto” che era destinato all’instabilità permanente. L’Occidente, non del tutto a torto, ha creduto di aver vinto uno scontro epocale con le ideologie, le forze e le culture che – dall’Ottobre russo a Bandung e all’esplosione del ribellismo dei popoli tradizionalmente soggetti – avevano sfidato il suo primato assoluto e si sentiva più che mai depositario della “verità”. Veniva meno la necessità di ogni riflessione critica. Anche i correttivi che per convenienza erano stati apportati al mercato e agli istituti di tipo liberal-capitalista, se non altro per attenuare le diseguaglianze più stridenti, perdevano ogni ragion d’essere. L’“occidentalismo” divenne l’unità di misura del progresso, del buon governo e della modernizzazione. L’asimmetria su cui avevano prosperato le fortune dell’Europa e delle sue appendici al di là degli oceani era talmente scontata da non essere neppur più percepita (poco importa se in buona o cattiva fede).

Che il mondo sia attraversato da un’insanabile faglia di senso è emerso nettamente anche negli eventi di Parigi. Misurare le tragedie a seconda del numero delle vittime è offensivo per tutti, morti o vivi. Vale per le inondazioni così come per gli attentati. Parigi è sicuramente più importante di Peshawar, Maiduguri o Misurata ma ci deve pur essere un motivo se, come ha già detto o scritto qualcuno, i morti in Europa e Occidente si contano ancora per unità mentre in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale le cifre vengono arrotondate in centinaia o migliaia.

Non c’è solo il diverso impatto degli attentati qua e là a fare la differenza fra Nord e Sud. Una manifestazione di politici e di popolo comune come quella, solenne e liberatoria, dell’11 gennaio nella capitale francese non potrebbe svolgersi, e non sarebbe nemmeno immaginabile, in gran parte del Sud globale (e non solo per colpa delle ristrettezze di cui soffre il campo della politica nel Sud).

È risonata anche in quella dimostrazione la frase fatta che vorrebbe scagionare l’islam sebbene tutte le precauzioni e le chiusure vadano in quella direzione. Un po’ buonismo di maniera (la deriva non si è certo fermata) e un po’ secondi fini. Si pensa a preservare le relazioni così utili con i regimi musulmani “moderati”. Per la strategia di al-Qaida, se non di Isis, eventuali pogrom anti-islamici nelle città europee sarebbero benvenuti. Era ben noto che la diaspora musulmana in Europa sarebbe diventata il nodo cruciale per gli effetti su di essa dell’inserimento in società democratiche e secolarizzate e per la novità nel sentimento degli europei di convivere con l’ “altro” fuori dell’“altrove”. Nessuno, se non qualche servizio di intelligence, è in grado di stabilire con certezza quale sia la filiera che collega fra di loro o a un’eventuale casa madre i singoli episodi di violenza che tanta impressione hanno suscitato e suscitano. I riferimenti a al-Qaida e al Daesh sono poco più di un rito anche da parte degli autori in cerca di visibilità, finanziamenti e coperture.

Si può, e si deve, evitare di coinvolgere tutto l’islam inteso come religione universale, comunità di fedeli o appartenenza identitaria, ma nonostante i molti equivoci che accompagnano quella rivendicazione, non si può ignorare l’ispirazione a una qualche forma di islam politico e, nel momento in cui impugna un’arma, militarizzato. Il travisamento della dottrina originale ricorre in tutte le “guerre sante”. Che fra gli obiettivi di movimenti, di gruppi sociali o di singoli individui (sembra essere questo il livello “politico” dei jihadisti da banlieue) non ci siano solo persone o valori occidentali ma anche dei musulmani, dirigenti o gente comune, non toglie nulla a quell’origine se tutto discende dal rancore per la sottomissione del passato e le complicità del presente. L’islam è al centro della lotta per il potere e le risorse in Nigeria, un paese africano dove la crisi ha origini molto diverse e radici che affondano nella storia dell’Ottocento. È come se ciò che nelle nostre società post-industriali passa sotto l’etichetta anodina di “antagonismo”, a livello Nord-Sud si esprima ormai solo o soprattutto attraverso istanze o appelli di carattere religioso.

Per chi si oppone a – o si difende da – quella violenza può essere conveniente adattarsi allo schema semplificatorio del fondamentalismo. È il modo migliore per prendere le distanze e delegittimare il “nemico”. I terroristi non sono solo il Male, sono il Medioevo. I più sofisticati dicono il “loro” Medioevo perché sanno che durante il “nostro” Medioevo gli arabi avevano anticipato il Rinascimento. Automaticamente la reazione dell’Occidente, anche quando si esprime a sua volta nella violenza dei bombardamenti e delle uccisioni mirate, come ormai è prassi per gestire le crisi in Periferia, sovvertendo o annullando i confini, assume i contorni del Bene, della Giustizia e della Modernità anche se le poste in palio sono meno auliche e più materiali. Dopo tutto, qualsiasi “etnocentrismo” (in questo caso l’Europa, l’Occidente o addirittura la civiltà giudaico-cristiana) è un principio che contraddice la modernità come intesa dallo stesso Occidente.

Passata l’ emozione della prima ora, il raduno di Place de la République va letto come il modo in cui il “potere” ha celebrato se stesso e si è autoassolto. Le guerre intentate dagli Stati Uniti o dall’Europa in (se non contro) tanti paesi musulmani, spesso utilizzando o fomentando conflitti locali e agendo senza remore sul divario sunniti-sciiti, non possono essere iscritte all’attivo di una politica di contenimento del terrorismo perché sono, giusto al contrario, una delle cause che lo provocano. A scanso di equivoci, è una spiegazione, non una giustificazione. Anche nel contenimento dell’Urss e del comunismo nel Terzo mondo si tendeva artificiosamente a presentare tutte le vacche come grigie (o rosse). La stessa definizione del Califfato dell’Isis come stato terrorista è una forzatura. Serve solo a far dimenticare la guerra degli Stati Uniti in Iraq (uno “sbaglio”, dice Gentiloni) e le confuse interferenze nella guerra civile siriana anche in funzione anti-Putin.

In Italia, come in tutto l’Occidente, si è parlato di una dichiarazione di guerra da parte dei terroristi come se non ci fossero già in corso – con o senza una dichiarazione formale – guerre in Libia, Iraq, Afghanistan e Siria. Il “Corriere della Sera” fa di tutto per rievocare l’11 settembre e ripropone i “classici” Fallaci e Terzani. Nel talk-show più audace sulla Sette si incita a un intervento esplicito per abbattere Assad. Chissà per quale miracolo qui non si ripeterebbero i disastri della sciagurata guerra contro Gheddafi. Nessuno si chiede o chiarisce a quale titolo si agirebbe. Obama, che si vanta di aver raccolto una sessantina di paesi nella coalizione per combattere Isis, tiene fuori accuratamente l’Onu per non intralciare le proprie scelte (per di più ondivaghe).

I palestinesi sono usciti “perdenti” dagli ultimi sconvolgimenti politici e militari del Medio Oriente. Questo non dovrebbe autorizzare a perpetuare il conflitto che è stato la madre di tutte le guerre in Medio Oriente né a riabilitare il primo ministro israeliano, Netanyahu, anche come referente dell’ebraicità, dando una spinta ulteriore alla discussa trasformazione di Israele in stato ebraico. La cancellazione dall’agenda della “questione israeliana” come effetto collaterale dell’eccidio nella redazione di “Charlie Hebdo”?