«Tutti a casa?». Luigi Di Maio esce da palazzo Chigi e si dice sereno. Prima ammette che la giornata è stata «difficile» poi lancia la sfida finale a Matteo Salvini. Per ore tutto si è giocato sul doppio filo delle prospettive politiche e della tenuta interna del Movimento 5 Stelle. Di Maio ha incontrato i capigruppo Stefano Patuanellli e Francesco D’Uva, ma soprattutto ha riallacciato un filo di comunicazione con Roberto Fico.

IL CAPO POLITICO si gioca molto, se non tutto, ed è l’ultimo a volersi rassegnare. Una specie di sindrome di Stoccolma porta lui e gli altri membri del governo di sua stretta osservanza a dire che il contratto gialloverde deve andare avanti ad ogni costo «perché c’è ancora molto da fare per gli italiani» e perché non viene considerato possibile che cada un governo cui neanche una settimana prima è stata votata la fiducia in senato.

Quando già in tanti alzano gli occhi al cielo in segno di rassegnazione, ad esempio, il sottogretario agli esteri Manlio Di Stefano approfitta del compleanno di Giuseppe Conte per augurare lunga durata a un esecutivo che giorno dopo giorno costringe i grillini all’umiliazione. Danilo Toninelli, l’uomo nel mirino del cecchinaggio salviniano, afferma sicuro che interrompere l’esperienza di governo significherebbe «tradire il proprio mandato». Persino l’outsider Alessandro Di Battista scrive un post per dire che il governo potrebbe fare cose fantastiche, flat tax inclusa, se non fosse per «il genero di Verdini».

Ecco la metafora della sindrome di Stoccolma. Il meccanismo che porta l’ostaggio ad innamorarsi dei propri carcerieri in politica si traduce con la disponibilità a compromessi estremi. Ecco perché il massimalismo grillino si è improvvisamente trasformato nella logica del meno peggio. Solo che lo spettro del governo tecnico agitato nelle ultime settimane per convincere i parlamentari a ingoiare il boccone indigesto del decreto sicurezza bis e quello amarissimo della Tav diventa un feticcio inservibile quando la ruota di incontri tra palazzo Chigi e le due ali del parlamento si sposta al Quirinale. Per gli eletti grillini resta l’ipotesi che sia «folle» andare al voto. Ma quando diventa evidente che Salvini ha deciso davvero di staccare la spina le carte si scompigliano oltre le logiche tattiche e di corrente.

IL PRIMO MOTIVO è semplice: al momento nessuno dello stato maggiore grillino potrebbe ricandidarsi, visto che il tetto del doppio mandato è ancora in vigore per deputati e senatori. Il secondo è dettato dai sondaggi: visti i rilevamenti d’opinione e compulsati i rapporti dai territori, difficilmente molti eletti al primo mandato hanno la rielezione in tasca. Infine, se salta il banco potrebbe bloccarsi anche la riforma Fraccaro sulla riduzione di deputati e senatori, che Di Maio e i suoi avevano usato come un’assicurazione sulla vita del governo e che non a caso dai grillini viene considerata come vera causa della decisione di aprire la crisi: da qui l’idea di sfidare la Lega proprio su quel terreno. Il combinato disposto di questi fattori rende la massa degli oltre trecento parlamentari grillini praticamente incontrollabile. Il M5S potrebbe trovarsi nel caos, con una leadership screditata e prospettive incerte potrebbe scattare il «si salvi chi può». L’Italia a quel punto potrebbe conoscere la più vasta palude parlamentare della storia repubblicana. Qui si aprono le danze sul M5S che viene.

IL SENATORE GRILLINO (ed ex leghista) Gianluigi Paragone già due giorni fa aveva profetizzato il punto di caduta del governo. Adesso manda un altro segnale, a ciò che resta del governo e soprattutto ad una parte del M5S. «È stato sbagliato votare per Von der Leyen e dire sì a Lagarde, voglio un movimento che sia critico verso l’Europa, altrimenti a cosa serviamo?», dice Paragone. Se dovesse prevalere il senso di liberazione dall’amico-nemico leghista potrebbe saltare anche il dogma fissato nel 2013 da Gianroberto Casaleggio in persona: «Mai col Pd». Paragone invece sembra preferire la scelta di serrare la fila per inseguire Salvini sul suo terreno. Nel mare magnum dei gruppi parlamentari grillini al caos ci si è abituati. Ma mai la confusione è stata maggiore.