Stavolta il comando militare turco l’ha chiamata «Aquila d’inverno», l’operazione aerea che martedì sera, per ore, ha colpito in contemporanea tre luoghi simbolo del confederalismo democratico teorizzato dal leader del Pkk Ocalan: il campo profughi di Makhmour nel Kurdistan iracheno (culla di quel sistema politico); Rojava, il Kurdistan siriano (la prima messa in pratica su vasta scala); e Shengal, la regione irachena a maggioranza ezida (la prima realizzazione in una diversa comunità etnico-religiosa).

Ore di bombardamenti nella notte – su villaggi e comunità civili e su un campo di 12mila rifugiati sotto assedio – proseguite ieri con raid aerei su tutto il Rojava, da est a ovest, con una ventina di comunità prese di mira sia con droni che con artiglieria pesante.

LA TURCHIA, con il ministro della Difesa Hulusi Akar, ha parlato di operazione contro il Pkk e i suoi affiliati tra Siria e Iraq, considerati da Ankara gruppi terroristi. In un comunicato nella notte tra martedì e mercoledì il ministro ha dato conto della fine dell’operazione-lampo (che però non appare affatto finita) celebrando il ritorno a casa degli aerei, «sani e salvi». Come se in Kurdistan avessero una contraerea per fermare i caccia turchi.

Secondo Akar, «un gran numero di terroristi è stato neutralizzato». I 60 caccia coinvolti hanno bombardato 80 target, aggiunge. A Derik, Siria del nord-est, dove la Turchia ha preso di mira una centrale elettrica, sono stati uccisi quattro membri delle Sdf; tre civili a Shengal, dove sono stati colpiti villaggi e 21 postazioni delle forze di autodifesa Ybs; otto a Makhmour, tra civili e membri dell’autodifesa del campo profughi curdo. Ieri almeno 10 civili uccisi ad al-Bab.

LE IMMAGINI PUBBLICATE ieri sui social da agenzie curde e attivisti locali raccontano la distruzione. A Shengal l’Amministrazione autonoma ha tenuto una conferenza stampa in un cratere, tra le macerie di uno dei palazzi colpiti.

L’attacco giunge mentre nelle principali città del Rojava, da Kobane a Qamishlo fino alla stessa Derik, in questi giorni si sono svolti i funerali delle 121 vittime dell’assalto dello Stato islamico alla prigione di Sina’a, ad Hasakah: 77 membri dello staff della prigione e 44 combattenti delle Sdf, le Forze democratiche siriane. In migliaia hanno preso parte alle commemorazioni, tra le bare coperte dalle kefieh con i colori del Kurdistan e i volti degli uccisi.

L’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est legge un legame diretto tra il fallimento dell’assalto islamista e «Aquila d’inverno»: «Questi attacchi sono stati condotti – ha detto all’agenzia Anf Salih Muslim del Partito dell’Unione democratica – perché le speranze che la Turchia aveva riposto nell’Isis sono state infrante. Ha attaccato quando l’Isis è stato cacciato da Kobane. Quando l’Isis perde, lo Stato turco aumenta i suoi attacchi».

Un’operazione, quella dell’altra sera, tanto imponente – militarmente e politicamente – da provocare stavolta la reazione del governo centrale iracheno che ha condannato i raid e la palese violazione dello spazio aereo e della sovranità nazionale (violata anche dalla presenza di basi turche sul territorio, ormai realtà da anni). Succede sempre, nel silenzio di Erbil e Baghdad. Non a caso ieri il presidente del Kurdistan iracheno Barzani era ad Ankara per incontrare il presidente turco Erdogan.

CHE NON SI GIUSTIFICA nemmeno. Rivendica. Lo ha fatto ieri in un discorso alla Confederazione dei giovani uomini d’affari turchi, una sorta di confindustria giovanile: «Quando ho detto che saremmo entrati nei nascondigli dei terroristi, qualcuno (mi) ha preso in giro. Ora siamo entrati nei loro nidi. Ieri notte non riuscivano più a trovare un buco dove scappare».