A poco servono le rassicurazioni statunitensi agli alleati del Golfo sull’esclusione a priori di Siria e Iran dalla coalizione anti-Isis. Damasco e Teheran, che piaccia o no, stanno per ora dalla stessa parte della barricata perché l’avanzamento del califfato minaccia gli interessi dell’asse sciita come quelli del nemico saudita. Ragioni diverse, ma mezzi uguali: ieri Ali Shamkhani, direttore del Consiglio di Sicurezza nazionale iraniano, ha annunciato l’invio di armi al Libano per controbattere eventuali offensive jihadiste.

Lo stesso aveva fatto Riyadh a inizio settembre, a seguito di un accordo da tre milioni di dollari con la Francia: armi ai soldati di Beirut impegnati al poroso confine con la Siria, da cui tra il 2 e il 3 agosto arrivò violentissimo l’assalto da parte del Fronte al-Nusra contro la città di Arsal.

Teheran ha chiesto al governo libanese di redigere una lista dell’equipaggiamento necessario, mentre Damasco tendeva di nuovo la mano a Washington. Il presidente Assad non ha mai occupato posizione tanto favorevole come quella attuale, con una Casa Bianca in difficoltà, costretta a intervenire sapendo che le opposizioni su cui ha contato per tre anni sono all’angolo o fanno accordi con l’Isis.

Dopo il discorso alle Nazioni Unite di lunedì, il ministro degli Esteri siriano Muallem è tornato a sottolineare che il nemico di Occidente, Golfo e Siria è oggi comune e che nella realtà dei fatti il coordinamento tra Damasco e Washington esiste già: «Ormai è un fatto. Noi combattiamo l’Isis, loro combattono l’Isis. Siamo soddisfatti, fino a quando bombardano lo Stato Islamico non critichiamo la loro partecipazione».

E dopo aver accusato gli Stati Uniti di «politica doppia», quella che con una mano preme il bottone che fa partire i raid e con l’altra rifornisce di denaro e fucili le opposizioni, ha chiesto alla Casa Bianca di impegnarsi di più e bombardare tutti i gruppi islamisti presenti sul terreno: «Hanno la stessa estrema ideologia», ha detto Muallem in un’intervista all’AP.

Ma bombe o meno, il presidente Obama pare sempre più impantanato. A parlare è il campo di battaglia: i 35mila uomini di cui sarebbe composto l’Isis – secondo i dati ottimistici della Cia – si trovano ormai ad un paio di chilometri da Baghdad. Difficile arginare anche la propaganda mediatica di al-Baghdadi: ieri è stato pubblicato il terzo video dell’ostaggio britannico John Cantlie, sponsor obbligato dello Stato Islamico che è costretto a ripetere le critiche ad Obama e a sbeffeggiarne la strategia, ricordandogli che le armi consegnate all’Esercito Libero Siriano sono oggi in mano all’Isis : «La forza aerea è buona contro target specifici, ma non a prendere il controllo del terreno. Dovete mandare truppe ed è difficile immaginare che questo esercito miscuglio con una lunga storia di inefficienza possa trasformarsi in una fanteria credibile».

I jet non li arginano, peshmerga e esercito iracheno nemmeno: ieri 4 miliziani curdi, di cui 3 donne, sono stati decapitati in Siria e le teste esposte a Jarablus. Si registrano alcune vittorie isolate, ma la struttura del califfato non trema. Ieri scontri hanno avuto luogo al confine tra Siria e Iraq, sotto il controllo jihadista da due mesi: dopo che tre autobombe sono saltate in aria tra i miliziani curdi, uccidendone a decine, le truppe irachene hanno annunciato la ripresa della città di Rabia. A sostenere l’avanzata congiunta di Baghdad e Irbil sono state le bombe Usa: la città di Rabia ha un ruolo strategico, passaggio tra Siria e Iraq oggi usato dall’Isis per rifornirsi di armi e miliziani. Successi anche a sud di Kirkuk, dove i peshmerga hanno ripreso due villaggi, e a nord della città di Mosul.

Nelle stesse ore, però, era Baghdad nel mirino: esplosioni hanno insanguinato la capitale e la vicina città sciita di Karbala, 19 morti. Ormai gli scontri sono alle porte della capitale, in particolare a Fallujah, seppur il Ministero della Difesa preferisca riportare le buone notizie annunciando che 16 villaggi della provincia occupata di Diyala sarebbero stati strappati allo Stato Islamico.

Dall’altro lato del confine, mentre si alzava l’appello dei curdi siriani che chiedono di ricevere al più presto armi come i curdi iracheni, la Turchia si dichiara pronta al grande passo. Domani il parlamento voterà dopo l’invettiva del presidente Erdogan che non riesce a concepire un’Ankara fuori dai giochi e torna a proporre una zona cuscinetto militarizzata al confine turco-siriano (dove infilare anche i rifugiati siriani) e il dispiegamento di truppe sul terreno, che per ora ammontano solo ad una trentina di carri armati. Una zona cuscinetto che solleva sospetti da parte dei curdi turchi che vedono nella sua implementazione il migliore dei modi per soffocarne la resistenza.