C’è qualcosa che continua a sorprendere nel fare teatro di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi. Per la costanza principesca con cui hanno saputo restare fedeli alla loro visione artistica – e sono più di trent’anni da quel loro primo rarefatto lavoro, Lo spazio della quiete, che aveva subito rivelato qualcosa di più di un talento. Un atteggiamento appartato, un tenersi lontano dalle mode del momento che attiene quasi più a una necessità istintiva, fisiologica verrebbe da dire, che a una meditata scelta operativa. Un riconoscibile codice espressivo coniugato però con la voglia di rimettersi in gioco ogni volta.

Forse anche per questo periodicamente sentono il bisogno di tornare a lavorare con un gruppo più numeroso di giovani allievi. E non si sono dimenticate le belle prove di Ossicine e Fuoco centrale, colorate di silenziosa energia. È capitato anche per questo nuovo Giuramenti, in scena per pochi giorni al teatro Bonci di Cesena ma che contiamo di rivedere alla ripresa autunnale. Più di un anno di laboratori per arrivare a scegliere gli interpreti definitivi; a seguire, tre mesi di lavoro nei boschi di Mondaino ospiti del Teatro Dimora dell’Arboreto, diventati anche pratica di vita comunitaria, cibo e pensieri. Tre mesi durante i quali sono nati i versi di Mariangela Gualtieri, in forma di brevi monologhi creati sui corpi degli interpreti, un ensemble in larga parte al femminile secondo una sensibilità che già contrassegnava le prime prove del Teatro Valdoca.Femminili sono in prevalenza le voci che giungono dal palco in penombra, dove i dodici attori stanno seduti in circolo, tranne uno che se ne sta eretto in equilibrio non proprio stabile su una specie di zoccoli. Sono canti popolari di varie lingue e paesi che loro stessi hanno scelto e che si propagheranno anche nel corso dello spettacolo, contrappuntati dai colpi di un gong o dalle sonorità dei piatti di una batteria sfiorati da un archetto.

Come un lento scivolare nella coralità che definisce la melodia dello spettacolo. Le poltrone della platea sono state coperte da teli bianchi che trasformano la sala teatrale in una distesa di dune desertiche, con gli spettatori raccolti tutt’intorno nei palchi; al centro troneggia uno scultoreo letto, reduce da un altro più lontano spettacolo di Valdoca. E altri segni del proprio passato riemergono qua e là, come al richiamo di una tenace memoria di sé. Il ruotare aereo di una pertica. Le tracce di un rosso di sangue che stria i corpi un po’ imbiancati.

Il coro è il vero protagonista di Giuramenti, non semplice sommatoria di corpi e di voci all’unisono ma l’espressione di un sentire collettivo che si confronta con la singolarità. Da questo, come all’origine della tragedia greca, si staccano infatti le singole agoniste, che nel testo di Mariangela Gualtieri prendono nomi come «piccola amazzone» o «ragazza ardente», senza per questo aspirare a diventare personaggi. Vengono a esporsi su una sorta di passerella che si aggetta dal proscenio, da cui possono poi dilagare in processione nella sala. Il palcoscenico è invece soprattutto il luogo delle corse e delle danze. C’è in effetti davvero qualcosa che aspira al tragico in questa costruzione, inteso nel senso più originario, di un interrogarsi collettivo su una zona d’ombra, da cui emergere anche gioiosamente dopo aver sperimentato violenza e dolore.

Per arrivare da ultimo davanti a quella «finestra spalancata sul mondo» con un commiato rivolto ad altre singolarità che bussano alle nostre porte. E il titolo? Si dà così, nel suo enigma, ed è chiaro però l’impegno che sottintende a dare peso alle parole, tanto più importante in tempi di parole «vane».