Il segretario di Stato Mike Pompeo ha rinunciato alla tappa in Groenlandia per tornare subito a Washington. Si fa più grave la crisi con Tehran innescata proprio da Donald Trump con la decisione, un anno fa, di uscire dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano del 2015 (Jcpoa) e di varare di nuovo sanzioni contro l’Iran. Le ultime appena approvate dall’Amministrazione Usa riguardano le industrie di ferro, acciaio, alluminio e rame della Repubblica islamica. Anche queste sono contrarie alle norme internazionali e, più di tutto, al buonsenso. Ma il resto del mondo resta in silenzio, indifferente, mentre crescono giorno dopo giorno le probabilità che un banale incidente o un pretesto possa innescare una nuova guerra nel Golfo.

In questi giorni si stanno ammassando imponenti forze militari nelle basi e postazioni Usa sparse nelle petromonarchie arabe e nelle acque dove transita oltre un terzo del petrolio mondiale. La portaerei Uss Abraham Lincoln ha attraversato ieri il Canale di Suez in direzione del Golfo, salutata con tutti gli onori al suo passaggio da rappresentanti egiziani ad alto livello. Il presidente El Sisi collabora attivamente con Washington contro Tehran e Damasco. Nelle scorse settimane a Suez sono state fermate le petroliere iraniane dirette ai porti siriani nel Mediterraneo e le conseguenze per il rifornimenti di carburante in Siria sono stati immediati.

Il gruppo d’assalto guidato dalla portaerei Lincoln include l’incrociatore lanciamissili Uss Leyte Gulf e il cacciatorpediniere del Destroyer Squadron. L’arrivo delle navi da guerra Usa nel Golfo e nell’Oceano Indiano era programmato da tempo ma, ha detto John Bolton, l’uomo che più di ogni altro sta spingendo gli Usa verso la guerra contro Venezuela e Iran, è stato accelerato da “informazioni” di fonte israeliana su un presunto attacco iraniano in fase di preparazione. A questa task force navale si aggiungeranno almeno quattro bombardieri pesanti B-52, un numero che potrebbe aumentare. Gli Stati Uniti mantengono regolarmente una presenza di bombardieri nella regione ma i B-52 sono un segnale inequivocabile. Stiamo parlando di aerei a lungo raggio, specie di quelli dell’ultima generazione, capaci di rovesciare sui territori nemici valanghe di bombe ad alto potenziale. L’hanno provato sulla loro pelle i civili nordvietnamiti e anni dopo quelli iracheni durante le offensive degli Usa passate alla storia come la prima e la seconda guerra del Golfo. La terza è solo questione di tempo. Per ora siamo nella fase della guerra “psicologica” ma il conflitto vero potrebbe non essere lontano, lo conferma anche la visita improvvisa di Pompeo in Iraq per «discutere delle minacce iraniane».

Alcune mosse iraniane tuttavia alimentano la narrazione degli eventi fatta da Usa e da Israele, che spinge con insistenza su Trump affinché renda ancora più pesanti le pressioni su Tehran. L’annuncio del presidente Rohani sul non rispetto per i prossimi due mesi dei punti del Jcpoa che impongono all’Iran di cedere all’estero l’eccedenza di 300 kg di uranio arricchito al 3,67% e di 130 tonnellate di acqua pesante, ha generato reazioni negative in Europa che pure prova ad ammorbidire la scellerata politica degli Usa nei confronti dell’Iran, nonostante la forte paura del governo Conte di andare contro Trump e le ambiguità di qualche paese dell’Unione. L’Iran, afferma una dichiarazione dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, e dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito, deve continuare ad attuare pienamente i suoi impegni sul nucleare e astenersi da qualsiasi escalation. «Rifiutiamo qualsiasi ultimatum e valuteremo la conformità dell’Iran ai suoi impegni nucleari» hanno detto gli europei in risposta all’ultimatum di 60 giorni giunto da Tehran che mira a far cessare le sanzioni nei confronti delle esportazioni di greggio e del sistema bancario nazionale. L’Iran alterna messaggi di fermezza ad altri più rassicuranti. L’obiettivo, sostiene il portavoce dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran, Behrouz Kamalvandi non è di andare contro ma di rafforzare l’accordo sul suo programma nucleare dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti.