Si è inaugurata il primo luglio la cinquantesima edizione dei Rencontres de la photographie d’Arles. 50 anni , 50 mostre (a cui si aggiungono le 160 esposizioni del circuito OFF). Durante la settimana d’apertura, la solare e bollente città della Camargue è invasa da un pubblico vario e curioso, in festa per celebrare lo storico festival dove la fotografia è regina, dal 1970. Il programma è anche un omaggio ai tre fondatori – Lucien Clergue, Michel Tournier e Jean-Maurice Rouquette – che hanno avuto l’intuizione di creare un Incontro internazionale dedicato alla creazione fotografica che allora faceva ancora fatica ad essere considerata come vera e propria forma d’arte, aprendo palazzi e luoghi pubblici arlesiani, con l’idea di portare in una piccola cittadina provenzale cultura e confronto intorno alla fotografia. Curiosamente la prima (piccola) edizione che si svolse nella sala d’onore del Municipio di Arles nel luglio del 1970 debutta proprio con un paradigmatico tema La photographie est une art. Niente di meno !  E la battaglia decennale di Clergue, Tournier e Rouquette (ultimo dei tre a scomparire, proprio quest’anno) che hanno a lungo lottato per far si che la fotografia avesse un solido riconoscimento istituzionale, si preannuncia chiara fin dal loro profetico debutto. Oggi si può dire che il festival ce l’abbia fatta. è sostenuto ormai con ingenti finanziamenti pubblici e privati, raggiungendo un grado di autonomia elevato che permette all’équipe di  navigare in acque relativamente sicure.

Nel clima di festa e celebrazione per il compleanno dei Rencontres, alcune mostre di quest’anno riportano i piedi a terra, qui nella nostra Europa del nostro pazzo 2019.

Due esposizioni in particolare sembrano dialogare inaspettatamente fra loro. Agli antipodi per forma e contenuto certamente. Ma da guardare una dopo l’altra.

C’è la monumentale Movida che fa parte della rassegna Mon corps est une arme. Qui si raccontano gli anni che seguono la caduta del regime franchista in Spagna. La cronaca di un’agitazione 1978-1988, come la chiamano i bravi curatori Antoine de Beaupré, Pepe Front de Mora e Irene de Mendoza.

Attraverso lo sguardo di quattro fotografi della Movida – Alberto Garcia-Alix, Ouka Leele, Pablo Pérez-Minguez e Miguel Trillo – si traccia un bilancio dell’esplosione di uno dei movimenti underground più interessanti dell’Europa contemporanea. Si libera il corpo, si libera il gesto dissacrante e si libera la creatività, finalmente, quando l’ultimo dei regimi fascisti europei cessa di esistere. La Movida diventa mito anche grazie ai suoi protagonisti – intellettuali e artisti – che partecipano al moltiplicarsi di feste, incontri e discussioni nei locali madrileni e si fanno spontaneamente cronisti della società spagnola in cambiamento. Un soffio di libertà. Accanto alle fotografie plastiche di Ouka Leele che amava colorare con acquarelli i suoi scatti provocatori e costruiti, troviamo un reporter d’eccezione come Alberto Garcia-Alix. Guardando le sue immagini siamo catapultati a Madrid negli ‘80. Fianco a fianco a celebrità come Pedro Almodovar spuntano suoi compagni d’avventure, perfetti sconosciuti, passanti e avventori di caffé. Le fotografie di Garcia-Alix si fanno documento imprescindibile del momento storico in cui il corpo si disfa delle catene, emancipandosi – eureka! -dall’oppressione politica e morale del fascismo.

Muri che cadono, muri che crescono. Istvan Viragvölgyi , vincitore della borsa di ricerca curatoriale dei Rencontres, allestisce un percorso unico e complesso. Un viaggio attraverso le mura che dividono in molteplici modi lo spazio europeo. Ci sono i muri d’influenza, le classiche barriere fra stati sovrani. Qui ritroviamo fotografie degli spaventosi bunkers di Cipro, le muraglie di Gibilterra, il filo spinato a Belfast e la drammatica vicenda soprannominata “Potemkin Fence”. Si racconta del recente episodio avvenuto nella periferia di San Pietroburgo quando il governo russo per evitare che la nazionale di calcio francese di passaggio in bus si accorgesse della povertà e marginalità di alcuni quartieri, ordina la recinzione di vaste zone popolari per impedirne la vista.

Ecco poi comparire i muri di segregazione, quelle barriere costruite per controllare le minoranze all’interno di uno stato. Ghetti rom recintati in Europa dell’est, recinti virtuali come i cartelli minacciosi negli internet café turchi per prevenire la consultazione di siti politici o i muri che dividono gli ospedali psichiatrici tedeschi dal resto della città.

Infine i muri contro le migrazioni, quelli che contribuiscono a creare la tristissima nostra fortezza Europa. Si lascia la mostra con in testa una fotografia a colori del 2014 che raffigura alcuni ricchi spagnoli giocare a golf nell’enclave africana Melilla mentre sullo sfondo alcuni migranti cercano di scalare il filo spinato della recinzione. Appare dunque evidente che i muri sono sempre protezioni del potere.