Le considerazioni di Tommaso di Francesco meritano a mio avviso una riflessione di fondo sulle priorità del pacifismo italiano dopo il disastro della guerra in Afghanistan. Una prima considerazione è che il disastro in Afghanistan non è stato solo degli Stati Uniti, ma della Nato, e noi eravamo lì per conto della Nato, abbiamo ucciso e siamo stati uccisi per conto della Nato. Alleanza che – vale ricordarlo – era durante la Guerra Fredda un’alleanza (con tutte le riserve) difensiva, ma dopo la dissoluzione dell’Urss si è trasformata in alleanza apertamente aggressiva, che proietta interessi «fuori area» di paesi che dominano l’Alleanza (non certo nostri in Afghanistan).

Il drammatico frangente attuale impone di riportare al vertice dell’agenda politica l’obiettivo di uscita dalla Nato. Sappiamo bene che nel variegato arcipelago pacifista vi sono valutazioni diverse, ma è urgente ora aprire un confronto a tutto campo. Il mio parere è molto netto:

– Gli Stati Uniti sono i responsabili di quasi tutte le guerre scatenate e combattute nei passati 70 anni, la Nato è controllata da Washington ed è lo strumento col quale vincola i paesi europei a sottomettersi e a partecipare agli interventi militari.

– La Nato ci vincola a missioni militari all’estero, e ad aumentare la spesa militare (con gaudio del Ministro della difesa Guerini).

– A dicembre con il ritiro degli Stati uniti dall’Iraq l’Italia avrà al comando del contingente Nato, a me sembra una prospettiva agghiacciante, ma nelle presenti condizioni inevitabile.

– Non vi è alcun dubbio che all’interno della Nato si scontrano vari imperialismi e sub-imperialismi, vari interessi neocoloniali obiettivamente in contrasto fra di loro: ma di questi contrasti e questi giochi l’Italia non è per nulla arbitra, ma completamente succube.

Nelle condizioni attuali a me paiono ovviamente giustissime le richieste dell’area pacifista di tagliare le spese militari, ma nella sostanza vane finché saremo proni alla Nato. E a questo proposito vi è a mio avviso un secondo aspetto sul quale il movimento pacifista è stato indubbiamente attivissimo in passato, ma che in questo frangente dovrebbe essere riportato al vertice dell’agenda politica: il nuovo modello di difesa che ha portato all’esercito professionale – approvato, significativamente!, da tutte le forze politiche, con la sola opposizione del Prc – era concepito appositamente pensando alle missioni militari all’estero! È indubitabile che i soldatini di leva non potessero essere in grado di utilizzare le dotazioni sempre più tecnologiche, e che non potessero essere buttati in campi di battaglia come l’Afghanistan e altri simili. Sia chiaro, non si tratta certo di riproporre la leva, nel mondo pacifista ci sono varie proposte ed elaborazioni.

La cosa che in questo frangente storico a me sembra urgente e non rinviabile è riportare la critica all’esercito professionale al vertice dell’agenda politica, in modo unitario nella galassia pacifista. Quella dissennata riforma (ma ben ponderata dalle forze partitiche) ha accelerato la dotazione al nostro esercito di armamenti sempre più aggressivi (portaerei, sommergili, dotazione di missili a medio raggio, droni armati, ecc.). Anche la rilevanza, il ruolo e la struttura della nostra industria bellica sono radicati nel contesto delle due condizioni precedenti e richiedono strumenti e consapevolezze nuovi per potere essere affrontati con efficacia.

È urgente e non rinviabile a mio avviso che si sviluppi un confronto franco e aperto non solo negli negli ambienti pacifisti, ma che sia capace di uscire da questi ambiti e di estendersi − in questo frangente − alle/i giovani e all’opinione pubblica.