Nella serata del 30 giugno il gruppo dell’Osce che monitora la situazione sui fronti del Donbass ha confermato che la Repubblica popolare di Lugansk ha fatto ritirare completamente uomini e mezzi dal fronte di Stanitsa Luganskaya.

Le truppe ucraine avevano per prime, e unilateralmente, abbandonato il fronte già il 28 giugno. Appresa la notizia il presidente ucraino Volodomyr Zelensky ha «espresso la speranza che il ritiro delle forze in campo sia il primo passo verso un cessate il fuoco stabile nel Donbass». Secondo Zelensky si è di fronte a un «fatto importante, il primo passo verso un cessate il fuoco stabile lungo l’intera linea di demarcazione».

Si tratta del primo risultato tangibile della nuova politica di dialogo lanciata dall’ex presidente ucraino Leonid Kuchma da quando è stato nominato da Zelensky capo dello staff che gestisce la trattativa per l’Ucraina sud-orientale.

La cautela è d’obbligo, ma si tratta dei primi concreti risultati per implementare gli accordi di pace sottoscritti a Minsk ormai cinque anni fa. L’accordo quadro sul ritiro di uomini e mezzi militari nel Donbass fu firmato da rappresentanti delle repubbliche di Donetsk e di Lugansk, Russia, Ucraina e Osce nel settembre 2016. E proponeva la creazione di zone di sicurezza in tre aree: Zolotoy, Stanitsa Luganskaya e Petrovsky. E ora anche il responsabile della Federazione russa nel gruppo di contatto, Boris Gryzlov, ha salutato positivamente il ritiro delle truppe e ha garantito che «la Russia continuerà ad assistere l’Osce nei suoi sforzi».

L’ottimismo per ora è frenato dal fatto che a Donetsk si continua a combattere e morire. Il governo ucraino denuncia come «le milizie abbiano rafforzato le loro posizioni e nell’ultima settimana siano morti nei combattimenti nove soldati ucraini», mentre Donetsk accusa Kiev di bombare la zona dell’aeroporto. Il diverso approccio delle due repubbliche autoproclamate in relazione alle profferte di Kuchma lascia pensare che tra i dirigenti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk esistano delle serie divergenze di prospettiva.

Zelensky ha bisogno di altri successi diplomatici prima della terza settimana di luglio quando si terranno le lezioni per il rinnovo della Rada. Se il suo partito «Servire il popolo» e altre forze “pacifiste” come il «Blocco delle Opposizioni» (il vecchio Partito delle regioni) dovessero ottenere un’ampia maggioranza – è la tesi del giornale di Kiev Strana – si avrà un’ulteriore accelerazione positiva. Altrimenti il neo-presidente sarà costretto suo malgrado a mediare con Poroshenko e le forze più scioviniste.

C’è poi il fronte della trattativa parallela Putin-Merkel-Trump a imporre a Zelensky una marcia forzata verso la pace. A Osaka durante il G20 i tre leader ne hanno parlato tra loro. Secondo il politologo ucraino Kostantin Bondarenko si starebbe profilando per l’Ucraina una «variante bosniaca»: «Nel 1995 negli Stati uniti, presso la base militare di Dayton, si ritrovarono i capi delle forze che si combattevano in Bosnia: presero la mappa e dissero qui ci saranno serbi, qui i musulmani e qui faremo un distretto neutrale che non permetterà a tutti i serbi della Bosnia di unirsi in una sola forza contro i musulmani, faremo una confederazione, ma il mandato supremo per l’amministrazione della Bosnia avverrà con il commissario dell’Osce. Quando verrà raggiunto un accordo tra loro, un rappresentante del mondo occidentale arriverà a Kiev e dirà: ora ti dirò come gestire lo Stato».

Una versione morbida di balcanizzazione che farebbe contenti molti, ma non l’Ucraina: «L’Occidente cercherà di costringere l’Ucraina a rispettare gli accordi di Minsk a partire dal ritiro delle truppe, imporrà ritiri unilaterali come sta avvenendo, farà riconoscere a Kiev lo status autonomo del Donbass, spingerà verso una balcanizzazione morbida e completa», sostiene il politologo.

Per evitare questa ipotesi Zelensky deve giungere al cessate il fuoco completo quanto prima e poi iniziare la federalizzazione delle repubbliche «ribelli». Per questo ha bisogno di rivedere la legge che impone l’ucraino come unica lingua nazionale fatta approvare in fretta dal parlamento dimissionario ancora «targato Poroshenko» a maggio scorso.

Il capo dell’amministrazione presidenziale ucraina, Andrey Bogdan, afferma che sarà possibile consentire alle regioni di Donetsk e Lugansk di usare il russo su scala regionale nel futuro. La legge attuale, anche in sede europea accusata di essere «discriminatoria», ora potrebbe essere impugnata dalla corte costituzionale, per poi giungere a una nuova legislazione ad hoc federalista nel nuovo parlamento.