Le aziende che assumeranno una persona beneficiaria del sussidio di povertà chiamato impropriamente «reddito di cittadinanza» avranno la possibilità di trattenere la quota che spetterebbe alla persona disoccupata. Lo sostiene il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato Stefano Patuanelli secondo il quale il sussidio potrebbe essere legato «alla formazione del lavoratore» per renderlo, usando un linguaggio sintomatico, «appetibile per le aziende». Nel caso in cui fosse assunto attraverso il sistema del lavoro gratuito (otto ore per lo Stato), della formazione obbligatoria nei centri per l’impiego da riformare e di un’offerta da accettare su tre, l’assegno non tornerà allo Stato ma sarà erogato sotto forma di incentivo all’azienda che ha assunto, probabilmente a termine (visto il mercato esistente) il lavoratore.

DA AMMORTIZZATORE sociale, e sussidio di ultima istanza contro la «povertà assoluta», ora il «reddito» è diventato anche un incentivo per le imprese. Si comprende la ragione per cui è stato inteso dal ministro dell’economia Tria come un investimento. Illustrando l’aggiornamento del Def alle commissioni bilancio di Camera e Senato ieri Tria ha precisato: «Favorirà più il Sud che il Nord – sostiene Tria – creando un ambiente favorevole all’occupazione. È un investimento di cittadinanza sulle parti più vulnerabili della società per far sì che tornino parte attiva».

LA CONFUSIONE tra incentivo fiscale e diritto fondamentale è totale, così come quella tra cittadinanza e investimento. Il cuore di questo discorso è l’impresa: il povero deve diventare «appetibile», cioè imprenditore di se stesso che risponde alle regole morali, produttive e di consumo presso negozi autarchici imposte dallo Stato e rispettare l’obbligo a formarsi e lavorare gratis per uscire dalla miseria. L’impresa, intesa come azienda, può usare il povero messo al lavoro usando gli incentivi che in realtà dovrebbero andare solo a lui se fosse titolare del diritto incondizionato a un «reddito di base», un diritto di esistenza sganciato dal lavoro. Non è evidentemente questo il caso.

A PARERE DI TRIA la concezione del «reddito di cittadinanza» come «investimento» è necessaria «per evitare sentimenti contrari al libero commercio e l’insorgere di sentimenti contrari all’Europa». In realtà, se fosse confermata la versione del sussidio-incentivo alle imprese, il governo «populista» affermerebbe l’idea che l’interesse del «povero» è quello di realizzare il profitto di un’azienda. Sono, verosimilmente, questi gli elementi che portano, anche nel Def, a parlare di un «effetto moltiplicatore» sul Pil, nell’illusione che il sistema delle «politiche attive» legate al sussidio produrranno «posti di lavoro». Se ce ne saranno, saranno altrettanto precari, come si è già visto nei paesi dove il workfare esiste e i lavoratori poveri non escono dalla loro povertà.

SBAGLIANO GLI OPPOSITORI neoliberisti di questo governo a definire il «reddito di cittadinanza» farlocco come una «misura assistenzialistica» ai «poveri». Si tratta al contrario di una misura di workfare neoliberale che mira ad attivare il soggetto e a renderlo «appetibile» per l’impresa. Si dovrebbe piuttosto parlare di un’assistenzialismo alle imprese, non molto diverso da quanto fatto dal Jobs Act di Renzi e del Pd che gli stessi Cinque Stelle hanno ferocemente contrastato. Oggi le risorse stanziate non sono molto inferiori: 18 miliardi di euro in tre anni alle imprese nel caso del Pd; tra i 5 e i 6 miliardi all’anno fino al 2021 per l’attuale governo, tenendo conto che il resto necessario ad arrivare alla cifra annunciata di «10 miliardi» all’anno) contiene i fondi per il sussidio Naspi e altre misure, più circa un miliardo da destinare ai centri per l’impiego. Se fosse confermata la suggestione di Patuanelli da quest’ultima cifra andrebbe inoltre stornata la «quota» che andrebbe al «povero» (che può anche non trovare lavoro), risultato della differenza tra il tetto massimo di 780 euro e il reddito Isee.

IL «REDDITO DI CITTADINANZA» è diventato un Fregoli. Ma le uscite degli ultimi giorni, pur estemporanee e in assenza di un vero testo a cui fare riferimento, sono ispirate a una logica evidente e inesorabile: il sospetto che i poveri siano potenzialmente approfittatori e lazzaroni da punire, da rendere «produttivi» per le aziende e il Pil della Nazione, da sorvegliare e punire. Mettiamo in fila le ultime rivelazioni, otterremo il profilo di una misura che non si allontana da quella finale. Stefano Buffagni (M5S) ha inventato il reato di “falso in reddito di cittadinanza”, nel caso di dichiarazioni mendaci o attività in nero dei beneficiari («sei anni di galera», per il vicepremier Luigi Di Maio); la viceministra all’Economia Laura Castelli (M5S) ha promesso di inviare la Guardia di Finanza in caso di spese «immorali» a «Unieuro». Ora la ricetta del «Jobs Act» , quello che è stato più volte promesso di riformare, invocando la «Waterloo del precariato» nel caso della presentazione del «Decreto dignità». Ai populisti non manca il senso per l’iperbole, ma lavorano duro per un progetto di società che probabilmente non piacerebbe a tutti i loro elettori, una volta messo in pratica.

NELL’AUDIZIONE alle commissioni di ieri il presidente facente funzione dell’Istat, Maurizio Franzini, ha confermato che saranno esclusi 1,6 milioni di stranieri poveri assoluti residenti su 5 milioni (il 50% vive al Sud). Su di loro nessun «investimento» perché sono esclusi dalla «cittadinanza».