Nell’immaginario monoteista – scriveva Hannah Arendt tra i frammenti per il suo libro incompiuto Che cos’è la politica? – può esistere un solo tipo umano fatto a somiglianza di Dio, ma questa idea contraddice l’evidenza della pluralità umana, che è poi il terreno su cui sorge la politica come prassi di mediazione e conciliazione delle differenze. Per questa ragione l’occidente ha concepito l’idea mostruosa di una storia universale in cui l’umanità intera si riduce nuovamente a un unico individuo plurale, mettendo radicalmente in discussione la libertà del singolo e cercando di barattarla con la visione falsamente rassicurante della necessità storica.

È cosa nota che proprio in difesa della differenza e contro il potere omologante delle idee universali Hannah Arendt ha scritto per tutta la vita. Ma la corrispondenza scambiata nel corso di quattro decenni con Günther Anders, il filosofo e scrittore che fu tra il 1929 e il 1936 il suo secondo marito – e che appare ora in italiano con il titolo Scrivimi qualcosa di te Lettere e documenti, insieme ad alcuni testi significativi redatti a quattro mani o nati da un evidente scambio di idee (Carocci, a cura di Kerstin Putz, traduzione di Nicola Zippel, pp. XV-193,  euro  24,00) – documentano snodi decisivi di quella vita e il prendere forma del pensiero di Hannah Arendt dal confronto, diventato presto esistenziale, con la forza schiacciante di una storia abbandonata dalla politica e in balia dell’idea totale di se stessa.

Dalla fuga all’esilio
Sono perciò rilevanti, non solo dal punto di vista autobiografico, le lettere degli anni 1939-41 (si sono conservate solo quelle di Hannah Arendt) che testimoniano i primi, durissimi tempi della fuga e dell’esilio, l’impegno della filosofa a favore dei suoi amici e familiari bloccati nel limbo europeo e braccati dalle norme introdotte dal regime di Vichy, e gli sforzi, mai interrotti, di continuare il suo lavoro filosofico anche e proprio nelle condizioni più difficili.

Più ancora che la biografia di un pensiero sempre, imperativamente, vicino alla realtà del tempo e dei luoghi in cui nasce, le lettere e i documenti che le accompagnano testimoniano infatti di un duplice percorso filosofico che, muovendo da analoghi presupposti, giunge a risultati solo apparentemente lontani e, in realtà, paradigmatici per tutta una stagione della filosofia tedesca. Günther Anders e Hannah Arendt hanno avuto percorsi formativi simili: entrambi sono cresciuti filosoficamente nello spirito della fenomenologia e della nascente filosofia dell’esistenza avendo per maestri diretti o indiretti Husserl, Heidegger e Jaspers; e entrambi hanno condiviso lo sforzo della generazione di Weimar di individuare un possibile punto di congiunzione fra filosofia e sociologia come via di mediazione fra assolutezza della ricerca filosofica delle verità e determinazione situazionale della conoscenza.

Fra i documenti più rilevanti contenuti in questa edizione delle lettere ci sono le due recensioni parallele di Arendt e Anders a Ideologia e utopia di Karl Mannheim, uno dei libri decisivi per l’orientamento di quella che sarebbe diventata la coscienza filosofica degli intellettuali tedeschi in esilio e che – negli stessi anni – veniva recensito anche da Horkheimer, Krakauer, Marcuse e Tillich.
Nelle due recensioni (e specialmente in quella nettamente più solida dal punto di vista sistematico di Hannah Arendt) colpisce lo sforzo di salvaguardare la filosofia dalle relativizzazioni sociologiche di Mannheim, in nome della difesa del singolo e del suo diritto a riflettere distinguendosi intellettualmente dalla condizione storicamente determinata del «soggetto collettivo».

I riferimenti a Benjamin
«Il singolo esiste non solo associato a questo soggetto – scrive Arendt – (…), ma anche «in una indipendenza, che nasce quando non si trova in sintonia con l’essere sociale a cui appartiene». È una rivendicazione già perfettamente elaborata della posizione che la filosofia di Hannah Arendt e di Anders rivendicherà nei decenni seguenti: prima nella rappresentazione del pensiero totalitario e dei suoi meccanismi di condizionamento, poi nelle riflessioni sulla realtà della tecnica e sulle trasformazioni che la bomba atomica produce sulla percezione stessa della condizione dell’uomo come homo faber.

Esiste infatti – scrive ancora Arendt nella sua recensione – la possibilità di sottrarsi alle condizioni della società e della storia in un’indipendenza spirituale che permette all’individuo di «vivere nel mondo, essendo tuttavia determinato da una trascendenza che si dà come ciò che non è realizzabile sulla terra» e che produce trasformazioni reali: «Così, ad esempio, Max Weber (…) ha dimostrato come un determinato essere pubblico (il capitalismo) sorga da un modo determinato di isolamento e dalla sua autocomprensione (il protestantesimo)».

Sebbene in modi diversi, Arendt e Anders sarebbero rimasti sempre legati a questa visione del pensiero «dissidente» e dell’antagonismo produttivo dello spirito «apolide», estraneo al mondo e alla fin troppo solida realtà del soggetto sociale. Non per nulla nelle lettere e nei testi di questa piccola ma preziosa raccolta tornano con insistenza i riferimenti a Walter Benjamin (che di Anders era cugino di secondo grado).
E se nelle lettere del ’39-’40 è la sua situazione esistenziale a interessare i due esuli, in quelle successive alla sua morte è la preoccupazione per le sorti del suo lascito e della sua eredità intellettuale a occupare i loro pensieri.

annah Arendt, che aveva ricevuto da Benjamin alcuni manoscritti fra cui una copia (pubblicata nel 2010) delle tesi Sul concetto di storia, si interessa alle sorti della pubblicazione postuma delle opere dell’amico che Adorno aveva iniziato a curare per conto dell’Institut für Sozialforschung: invia quel che ancora possiede delle carte benjaminiane non perché sia convinta del lavoro ma per «un dovere di lealtà»; appare al corrente dei manoscritti giunti in America e quando lo stesso Adorno comincia a lesinarle le informazioni si rivolge a Anders per sapere quel che cerca: «Ti prego davvero di farmi sapere che cosa è stato deciso ai vertici, dal momento che mi sembra che Wiesengrund non si senta obbligato a tenermi al corrente».
È Benjamin, infatti, il filosofo a cui Arendt (a differenza di Anders) si sente più vicina; e anche dopo l’uscita della prima raccolta delle sue opere teme il diffondersi della vulgata adorniana. Così, ancora nel 1955 si rivolge a Anders: «È triste che tu non voglia scrivere niente su Benji. Chi dovrebbe farlo, oltre a noi, se non vogliamo lasciare il monopolio a Adorno?».

Dinamiche da rivedere
La preoccupazione è un fatto che trascende ormai l’amicizia e investe un modo di fare filosofia che è nato dal confronto con Mannheim, si è identificato con l’esempio benjaminiano e ora rischia di appannarsi nell’interpretazione postidealistica e antipositivista dei francofortesi. Di questi e altri momenti di quella che fu una lunga e drammatica stagione intellettuale, le lettere e i documenti che testimoniano i rapporti fra Arendt e Anders offrono un saggio importante: come importante sarebbe una ricostruzione finalmente minuziosa delle dinamiche relative ai rapporti di quella generazione di intellettuali che per primi hanno sperimentato nel loro pensiero la radicalità dell’opposizione fra lo spirito apolide e le determinazioni della storia e della società.