L’antefatto è probabilmente falso: per quale motivo Bashar al-Assad avrebbe colpito con le armi chimiche i ribelli a Douma, dopo aver già vinto e averli portati al tavolo dei negoziati?
Non ne avrebbe avuto ragione, anche perché era ovvio che l’opinione pubblica internazionale avrebbe reagito.

Le prove non sono state rese pubbliche, ed è curioso che i bombardamenti siano iniziati poche ore prima dell’arrivo a Douma degli esperti dell’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.

Che sia stato usato il cloro non è di per sé segno che sia opera di Assad: arriva dalla Turchia ed è ampiamente disponibile, anche dai ribelli. È molto più plausibile che l’attacco di Douma sia stato mosso da chi ha tutto l’interesse che siano altri – le potenze occidentali – a colpire il regime di Assad, alleato di Teheran.

Se l’Iran continua ad aiutare Damasco è per lealtà: quando il dittatore iracheno Saddam Hussein invase l’Iran nel 1980, l’unico paese arabo che prese le parti degli ayatollah era stata la Siria.
Washington, Londra e Parigi affermano di aver attaccato per mantenere il divieto internazionale contro l’uso delle armi chimiche, diminuire l’arsenale di Assad e scoraggiarne l’uso contro i civili di Siria. La Carta delle Nazioni unite permette agli Stati membri l’uso della forza, ma esige che sia per autodifesa (non pare proprio che le autorità di Damasco avessero però intenzione di colpire gli Usa, la Gran Bretagna o la Francia) oppure per proteggere popoli che rischiano di essere sterminati dai loro stessi governi.

In ogni caso serve un mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che in questo caso non c’è. Può sembrare banale, ma Washington, Londra e Parigi hanno violato il diritto internazionale.

L’attacco poteva starci, ma soltanto dopo il rapporto degli esperti dell’Opac e la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Eppure, nella giornata di ieri sono stati in molti a difendere la legittimità dei bombardamenti sulla Siria, ma in ogni singolo caso lo si è fatto per difendere i propri sporchi interessi regionali: per il governo israeliano i raid sono «giustificati», ma non dimentichiamo che lo Stato ebraico occupa le alture (siriane) del Golan dal 1967 (e la risoluzione 242 la consiglio di sicurezza Onu obbligherebbe Israele a ritirarsi); e se i turchi hanno definito l’intervento militare «adeguato« è perché la confusione permette loro di colpire i curdi di cui vogliono scoraggiare, con ogni mezzo, la creazione di uno Stato indipendente.

Un’ulteriore osservazione: il sistema di difesa russo era operativo ma non è intervenuto, segno che erano stati presi accordi. Di morti, sembra non ce ne siano stati: i siriani sapevano bene dove i missili avrebbero colpito.

Il sito di stoccaggio per armi chimiche di Himshur Sar, vicino a Homs, non conteneva armi chimiche anche perché nel 2014 gli stessi americani avevano reso noto che Assad le aveva consegnate tutte. In ogni caso, nella stanza dei bottoni sapevano di non correre rischi: bombardare un deposito di armi di questo tipo vuol dire disperderle nell’ambiente e avvelenare un’intera regione, meglio evitare.

Alla luce di quanto sopra, che senso ha bombardare depositi senza armi chimiche, dove i militari sono stati evacuati?
L’impressione è che si sia trattato di un gesto simbolico, per far salvare la faccia al presidente statunitense Donald Trump dopo che aveva annunciato ritorsioni contro gli Assad in seguito all’attacco di Douma.

Una cosa è certa: se le autorità di Damasco hanno dichiarato che i bombardamenti hanno comportato danni limitati e quindi ridimensionato la gravità di quanto accaduto, a Teheran si guarda con grande apprensione a quanto succede nei paesi limitrofi. L’ennesimo attacco di una coalizione guidata dagli americani in un paese del Medio Oriente fa sì che i pasdaran debbano trovare una soluzione a un possibile attacco anche alla loro nazione. In un Medio Oriente distrutto dagli interventi militari occidentali, l’unica soluzione è la deterrenza: con i missili e, perché no, con l’atomica.

Ed è per questo che, se Trump non rinnoverà il waiver all’accordo nucleare con Teheran entro il 12 maggio, è probabile che sia la stessa leadership della Repubblica islamica a fare un passo indietro, mandandolo a monte.