Cade la testa anche del capo di Stato maggiore libico. Il generale Yusef al-Mangoush ha annunciato le sue dimissioni all’indomani dei violenti scontri di sabato scorso a Bengasi che hanno causato 31 morti. Le dimissioni arrivano in seguito ad alcune nomine che prevedono di designare un magistrato responsabile di investigare sulle responsabilità delle milizie e aprono a un piano per il passaggio di poteri dalle brigate alle forze di sicurezza, anche se nei documenti ufficiali non si fa chiaramente riferimento a uno «smantellamento».

Da parte sua, il vicepresidente del Congresso, Jomaa Atiga ha parlato di un tempo massimo pari a due settimane per sciogliere le milizie armate e arruolare singoli miliziani nelle forze di sicurezza del Paese. Secondo il politico, le autorità libiche avranno l’impegno di mettere in atto il piano entro la fine dell’anno. Nel testo reso noto alla stampa, si fa cenno anche a un possibile «uso della forza» per arrivare a controllare le attività dei gruppi armati. In questo clima di tensione, la presidenza del parlamento ha chiesto ai partiti di salvaguardare gli «interessi nazionali».

Gli scontri di sabato sono scoppiati quando un gruppo di manifestanti si è riunito alle porte della sede della milizia «Scudo della Libia» o «Lybian Shield», chiedendone la messa al bando. Secondo fonti mediche, la maggior parte dei cadaveri degli scontri dello scorso sabato presentavano ferite da arma da fuoco, mentre sei feriti hanno subito l’amputazione di un arto. Dopo le violenze l’esercito libico aveva assicurato che avrebbe ripreso il controllo di tutte le cellule della Lybian Shield a Bengasi. Il quartier generale della milizia, dove hanno avuto luogo gli scontri, è da ieri sotto il controllo diretto delle forze speciali.

La questione delle milizie resta la prima causa di instabilità sin dall’uccisione del colonnello Gheddafi nel 2011. La brigata è in realtà una sigla “ombrello” all’interno della quale hanno operato durante il conflitto decine di brigate. Questo gruppo sarebbe anche responsabile dell’ultimo assedio a Bani Walid dello scorso novembre. Esiste ancora un complesso sistema urbano di milizie nella capitale libica. Sono composte da ribelli che provengono da diverse parti del paese, disoccupati, ex detenuti rilasciati durante la guerra, e forze temporanee formate dal ministero dell’Interno, conosciute come Comitati supremi di sicurezza (Css). A questi gruppi si aggiungono le milizie salafite, ostracizzate dagli altri raggruppamenti e additate come responsabili di violenze dagli altri gruppi.

L’assenza di una politica univoca nei confronti delle milizie che operano sul territorio libico chiarisce la debolezza delle istituzioni post-Gheddafi e i limiti del governo di transizione. Centinaia di persone sono scese in piazza proprio per protestare contro l’assenza di diritto. Le urla della folla stigmatizzavano azioni di gruppi armati fuori legge.

Questi eventi fanno seguito agli attacchi al consolato americano di Bengasi, costato la vita all’ambasciatore americano Chris Stevens, nel settembre scorso. Molti attivisti sottolineano come l’attentato sia stato opera di milizie che lavoravano per il ministero della Difesa, a conferma di quanto le relazioni tra istituzione statali e gruppi armati siano ambigue in Libia.

Il malcontento verso i gruppi armati è stato esacerbato dall’occupazione permanente lo scorso aprile di palazzi pubblici e ministeri nel centro di Tripoli. Le proteste erano state innescate dall’approvazione di una norma per l’epurazione dalle cariche pubbliche degli uomini vicini al colonnello Gheddafi. Lasciando però in carica il contestato premier Ali Zeidan.