Il 21 maggio 1991sulla spinta del movimento di liberazione del Tigray il dittatore etiope Mènghistu Hailé Mariàm, detto il Negus Rosso, fuggì in Zimbabwe e a tutti i capi rimasti non restò che cercare riparo presso le ambasciate straniere. Si trattava degli esponenti della giunta militare del Derg (Governo Militare Provvisorio dell’Etiopia Socialista), la cui azione di repressione sistematica extragiudiziale delle opposizioni si stima che abbia portato negli anni 1977-78 alla morte di 500 mila persone. Si racconta che non era possibile fare nemmeno il funerale alle vittime e in alcuni casi registrati – dove era stato necessario utilizzare più di un proiettile per l’esecuzione – i familiari dovevano pagare le munizioni in eccesso usate per uccidere i loro cari.

Tuttavia, non si sarebbe trattato di una semplice violenza di Stato imposta dall’alto progettata ed eseguito dal Derg e dal suo apparato di sicurezza contro una giovane generazione che si agitava per una maggiore libertà e giustizia nella società etiope, ma di quello che gli storici definiscono «l’effetto dell’interazione negoziata tra attori che hanno operato in sfere diverse e con diversi livelli di influenza».

Quando i ribelli il 25 maggio 1991 erano alle porte di Addis Abeba, un gruppo di 8 gerarchi bussò alla porta dell’ambasciata italiana: erano Haylu Ymane, vice presidente del Consiglio di stato, Seyoum Mekonnen, vice capo di Stato maggiore, Wolle Checol, ex primo ministro, Fisika Sidelli, ministro dell’Economia e Afeworki Berhane, ex sindaco di Asmara e ministro della Sanità a cui si aggiunsero successivamente anche l’ex ministro degli Esteri, Berhanou Bayeh, l’ex capo di Stato maggiore Addis Tedla e il presidente ad interim della nuova Repubblica popolare democratica d’Etiopia, Tesfaye Gebrekidan. A riceverli l’Ambasciatore italiano Sergio Angeletti che nel rispetto della Costituzione italiana non li rimandò indietro.

Negli anni quattro si consegnarono alla giustizia etiope, uno si suicidò e uno morì in circostanze non chiare. Gli ultimi due hanno lasciato la collinetta dove ha sede l’ambasciata italiana lo scorso 30 dicembre dopo 29 anni. Si tratta dell’ex ministro degli esteri Berhanu Bayeh e dell’ex Capo di Stato Maggiore Addis Tedla: non dovranno più scontare l’ergastolo e non rischiano la pena di morte (erano entrambi condannati per genocidio). Il presidente dell’Etiopia, Sahle-Work Zewde, ha commutato le loro condanne a morte in ergastolo lo scorso 19 dicembre e il 24 dicembre il tribunale federale ha concesso loro la libertà vigilata, dopo che il procuratore generale etiope, Gedion Timothewos, ha chiesto clemenza per la loro anzianità.

Dai diplomatici italiani viene considerata la vittoria dei principi della Costituzione e dimostra quanto sia importante essere umanitari e garantisti non solo con le vittime, ma anche con i carnefici. Secondo Giuseppe Mistretta, oggi direttore centrale per i Paesi dell’Africa sub-sahariana e già ambasciatore ad Addis Abeba, «non aver ceduto sulla pena di morte è stato determinante».

La liberazione degli ospiti importanti potrebbe essere il preludio per il rientro in patria di molte figure minori che vivono da rifugiati ormai da quasi 30 anni soprattutto nei campi profughi del Kenya e ci ricorda la non linearità della teoria della vittima messa in atto da molte commissioni territoriali italiane: il rifugiato non è di per sé una vittima, non è detto che lo sia sempre stato, ma è vittima nel momento in cui fugge.