Tre euro e mezzo l’ora, max 4. È la retribuzione pagata dal padrone italiano a molti braccianti indiani sikh in provincia di Latina. Alcuni sono stati retribuiti in passato anche solo 50 centesimi l’ora, contro i circa 8,50 previsti dal contratto nazionale. La gran parte del salario si perde nella filiera corta del caporalato. Sfruttati, malpagati, spesso vittime di violenze e razzismo. La comunità sikh, per cultura pacifica e laboriosa, è spesso vittima di caporali, italiani e indiani, e sottoposta a violenze e sopraffazioni. I datori di lavoro, imprenditori capaci, sono diffusi in provincia di Latina. Sarebbe un errore generalizzare. I padroni invece sono i nuovi schiavisti. Alcuni padroni pretendono che il lavoratore indiano abbassi la testa quando si rivolge a loro. E poi tre passi indietro in segno di sottomissione. Lo sfruttamento e il caporalato sono una vergogna che si ripete sistematicamente. Lavorare nei campi è faticoso. Farlo per 14 ore di fila a volte diventa impossibile. Soprattutto quando piove e le ex paludi pontine tornano ad essere un acquitrino che impedisce di camminare. L’ultima settimana di lavoro generalmente non viene pagata, le ferie non riconosciute, si è obbligati a radersi la lunga barba e a togliersi il turbante, così rinunciando ad alcuni tratti identitari, si lavora a volte anche la domenica. Al campo agricolo molti arrivano in bicicletta, percorrendo le lunghe e malandate migliare pontine. Pioggia, acqua o vento non importa. A volte muoiono investiti da auto che li vedono all’ultimo secondo. Lavoratori che muoiono per andare a guadagnare forse 30 o 40 euro al giorno. Spesso non risultano irregolarità. Le ore lavorate, da cui far derivare il salario mensile, le segna il padrone. E lui fa come vuole. Ne segna tre, quattro al giorno. Poco importa se invece se ne lavorano tredici o quattordici. I braccianti indiani vengono considerati braccia da sfruttare e non uomini da rispettare.

Quando si spargono prodotti chimici i braccianti sikh sono perfetti. Lavorano instancabilmente dentro quelle serre trasformate in camere a gas, spargendo diserbanti e veleni senza alcuna protezione se non una sciarpa di lana avvolta intorno al viso. Fatiche che si pagano care, sia fisicamente che psicologicamente. Soprattutto con il passare degli anni i segni sui corpi dei sikh diventano visibili. Patologie che colpiscono le vie respiratorie, danni alle articolazioni, allergie, problemi alla vista. Lo ha già denunciato l’associazione In Migrazione con un dossier dal nome «Punjab» nel 2013 e poi Legambiente, Medici Senza Frontiere, Amnesty, la Flai-Cgil, l’Istisss e l’Osservatorio romano delle migrazioni. Lo stesso ha fatto Patrizia Santangeli con un documentario preziosissimo dal titolo Visit India. I continui incidenti sul lavoro spesso non vengono denunciati. Non ne vale la pena. Molti lavoratori feriti vengono accompagnati in prossimità del Pronto Soccorso più vicino e abbandonati. Se la caveranno. Le frustrazioni sono continue insieme alle mortificazioni. Come quando vengono aggrediti da piccole bande di italiani che attendono il malcapitato bracciante sul ciglio di qualche strada di campagna per aggredirlo e rubargli il salario. Un modo facile per rimediare 600 o 700 euro. Una spinta, la caduta della bicicletta e il fine settimana da sballo è assicurato. Resta nella memoria il caso di un lavoratore indiano che non conoscendo l’italiano e dovendo rinnovare la carta di identità si rivolse al padrone che pretese per il servizio circa 800 euro. Soldi facili. Altri lavoratori non vengono pagati da sei mesi, a volte anche nove. Viene loro dato qualche piccolo acconto di un centinaio di euro. Il resto più avanti. C’è la crisi e, si sa, la crisi la pagano i poveri. Un sistema rodato che dura da anni. Alcuni hanno trovato un modo per sopportare tutto questo.

Come ha denunciato l’associazione In Migrazione nel dossier Doparsi per lavorare come schiavi – anticipato dal manifesto – frutto di un lavoro durato diciotto mesi, alcuni lavoratori sono costretti ad assumere sostanze dopanti. Non sarebbe altrimenti possibile reggere quei ritmi e quelle violenze. Metanfetamine e oppio iniziano a circolare. La loro assunzione consente di sopportare le fatiche fisiche e quelle psicologiche. Alcuni padroni sanno e tacciono. La resa dei braccianti è migliore, questo è quello che conta. Ne fanno uso una sparuta minoranza di indiani, forse i più sfruttati, spesso mobili in tutta la provincia alla ricerca di un lavoro che possa durare qualche settimana. Uomini che parlano di quest’uso con grande riservatezza e vergogna. La loro religione vieta l’assunzione di qualunque sostanza che possa contaminare il corpo e la mente. Affermare l’uso di quelle sostanze significherebbe andare incontro a conseguenze non solo giudiziarie ma anche sociali. La polizia è già intervenuta effettuando provvidenziali arresti e sequestri, probabilmente con la collaborazione della stessa comunità sikh, desiderosa di combattere questa pericolosa deriva. L’italiano con il quale i lavoratori si esprimono è stentato. Servirebbero laboratori di italiano e centri servizi adeguatamente organizzati e finanziati. In provincia di Latina richieste come queste si perdono nel vento. È impressionante l’indifferenza della classe dirigente su questo tema. Qui il fascismo è un mito ancora vivo e si è unito al volto più spregiudicato del capitalismo, quello del denaro sopra ogni cosa, meta e premessa dell’agire individuale. L’indifferenza è strumentale alla conservazione del potere. Troppo pericoloso prendere le parti dei braccianti indiani contro i neoschiavisti del ventunesimo secolo. Gli indiani non votano, non parlano italiano, sono indifesi. I padroni qui comandano, votano in migliaia. Questo è il regno del senatore Fazzone, del Presidente della Provincia Cusani, sospeso con atto prefettizio per aver subito una condanna per abuso di potere e ora candidato alle Europee per Forza Italia. Condannato anche per abusivismo edilizio, tanto per terminare in bellezza.

Sul territorio combattono alcune associazioni e la Flai-Cgil. Servirebbe una cabina di regia regionale con potere di proposta e denuncia, un sistema di collocamento pubblico e una legge contro il caporalato migliore dell’attuale. Ma la Regione è assente ingiustificata. Serve una nuova stagione di lotta, qualificata, in grado di restituire dignità e giustizia al lavoro, ai lavoratori, al Paese intero. Sono lontani i tempi di Di Vittorio e Michele Mancino, quando si lottava per la dignità di migliaia di braccianti italiani meridionali e per la democrazia. Siamo al tempo delle dichiarazioni non mantenute, dei silenzi che convengono, delle larghe intese. Intanto i padroni contano i soldi, diventano ricchi e a volte si candidano anche in politica.