«Avevano bisogno di aiuto e ne hanno ricevuto solo dalle pietre della loro montagna. Non credo che gli yazidi riusciranno a dimenticare cosa è successo e non li biasimo se hanno perso fiducia nel mondo. Tuttavia, so che la loro capacità di recupero è infinita». Talmente illimitata, racconta Dunya Mikhail, poeta e giornalista irachena residente negli Stati Uniti, che nell’aprile scorso, si sono riuniti al tempio di Lalish – piccola valle di montagna situata nel nord dell’Iraq, circa 60 km a nord-ovest da Mosul – per celebrare il capodanno. Hanno acceso 365 lanterne per fare luce su ciascun giorno dell’anno nuovo in arrivo.

LA FORZA INNATA di questo popolo emerge prepotente dalle storie delle sue donne, violentate e schiavizzate dall’Isis a partire dal 2014. «Lo Stato islamico – come spiega Mikhail – considera gli yazidi degli infedeli perché non hanno un libro sacro, ma soprattutto perché crede che siano più deboli e dunque facilmente manipolabili». Cronache personali di questa gente in fuga sono raccolte nel libro di Dunya Mikhail Le regine rubate del Sinjar (traduzione Elena Chiti, Nutrimenti, pp. 232, euro 13.60).

L’AUTRICE, che oggi insegna all’Università del Michigan e nel 2001 è stata insignita dalle Nazioni Unite del Premio per la libertà di scrittura, ha riunito le testimonianze di molte donne yazide. Il suo volume non è solo un quaderno di interviste: in esso è contenuto il prezioso contributo di Abdullah, ex allevatore di api iracheno, che ha iniziato a dedicarsi al recupero delle vittime di Isis quasi per caso. Dal primo episodio, quello di Nadia, raccontato al telefono tra l’Iraq e gli Stati Uniti, Mikhail ha cominciato ad attendere le chiamate di Abdullah per conoscere le storie delle sue protette. Pur essendo poeta per vocazione, è riuscita a stendere un resoconto in prosa ricco di elementi e mai privo di drammaticità. «Inizialmente, credevo che avrei scritto un lungo carme in risposta alla catastrofe delle yazide – confessa Dunya – Poi, mentre le ascoltavo, sentivo che era essenziale mantenere le loro voci. Così, ho rispolverato le mie abilità di quando lavoravo come giornalista a Baghdad. Tuttavia, la poesia non poteva mancare: per questo, alcuni passaggi del libro sono scanditi dall’inserimento di versi».

LUNGO TUTTO IL TESTO, si ha un quadro delle violenze – fisiche e psicologiche – tale da indurre il lettore a chiedersi quale sia, effettivamente, l’aspetto più crudele delle loro esperienze. Il momento in cui la prigioniera, quando al suo rientro, scopre che l’intera famiglia è scomparsa, secondo la scrittrice. «Sopravvivere da soli è il modo peggiore per sopravvivere». L’intero libro mostra anche un profondo cambiamento nelle yazide: «Sono rimasta sorpresa nel vedere così cambiate le donne della mia terra – continua – Anni fa, nessuna avrebbe avuto il coraggio di denunciare una violenza sessuale. Ora ne hanno la forza. Forse perché il loro dolore personale è diventato ’finalmente’ pubblico. Ciò non vuol dire che sia stato semplice raccontare. Anzi, hanno attraversato momenti di pianto ininterrotto, altri di silenzio, come per un lutto».

C’È ANCHE MOLTO RAMMARICO per l’inumanità di cui è stata testimone indiretta. «È stata un’esperienza dolorosa e importante, avrei voluto che il mondo intero fosse lì con me ad ascoltarle». Si può dire che la raccolta del materiale – durata due anni – per la stesura del libro si sia svolta in maniera inconsueta.
Una prima fase, come la stessa autrice spiega nelle prime pagine del libro, al telefono con Abdullah, mentre viveva negli States. «Prima di volare in Iraq per parlare dal vivo con le donne che si erano rese disponibili a incontrarmi, io e Abdullah ci sentivamo molto spesso. Ma la differenza di fuso orario tra l’Iraq e l’America (sette ore, ndr) rendeva le giornate più brevi. E avevamo sempre i secondi contati: ogni minuto in più al telefono poteva rappresentare un’occasione in meno di ricevere richieste di aiuto dalle prigioniere».

ABDULLAH MONITORAVA i salvataggi attraverso il cellulare, con il quale forniva anche le coordinate alle prigioniere in fuga. «Ho imparato ad aspettare per ore le sue chiamate, – continua Dunya – ad ascoltare i racconti dilazionati nell’arco di giorni. Ma non mi sono mai abituata all’attesa di notizie da parte delle ragazze durante le loro fughe. Erano missioni a rischio commissionate a persone fidate.

LA PROBABILITÀ che fallissero era alta, così come la possibilità che la vittima e il suo traghettatore venissero uccisi». Ancora oggi, Abdullah continua a occuparsi di salvataggi ad alto rischio. Non è più tornato alle sue api «anche se ne ha molta nostalgia e spesso fa visita a un suo amico che se ne prende cura», racconta l’autrice con evidente affetto. Dunya Mikhail, dal canto suo, non ha mai raccontato ai suoi studenti la storia di Nadia e delle altre: «Sono molto sensibili a questo tipo di orrore. Ma forse un giorno dirò loro di più».