Ai lettori di racconti Mavis Gallant ha sempre chiesto un’assoluta libertà. I racconti, diceva lei (che di racconti è stata una tra le scrittrici più grandi), non sono i capitoli di un romanzo. Non devono essere letti uno di seguito all’altro come se avessero significato solo nell’ordine in cui li ha disposti l’autore. Leggetene uno, suggeriva. Poi chiudete il libro e leggete qualcosa di diverso. Riprendetelo più tardi. I racconti, concludeva, sono capaci di aspettare. Da lettrice di racconti questo consiglio io l’ho seguito con cieca obbedienza per i suoi. A volte, confesso, ho perfino zigzagato tra una raccolta e l’altra. L’ho poi seguito per i libri di altri autori, più esattamente per alcuni libri di altri autori. Se mi sono trovata bene? Direi proprio di sì: la mia libertà di lettrice ha scoperto non di rado vorticose correnti sotterranee, uncinato fili altrimenti invisibili. Tuttavia, se in questo momento dovessi molto più modestamente essere io a dare un consiglio sul modo migliore in cui leggere I racconti delle donne, l’antologia di venti testi firmati da altrettante autrici del Novecento che Annalena Benini ha raccolto e introdotto per Einaudi («Supercoralli», pp. 277, € 19,50), allora vi inviterei a fare precisamente il contrario. Leggeteli uno dietro l’altro, nella stessa sequenza in cui li ha ordinati la curatrice. Soprattutto, quando decidererete di prendervi una pausa, non mettete via il libro per un tempo troppo lungo. Leggetelo lasciando meno intervalli che potete tra i singoli racconti, proprio come se fossero capitoli di un unico romanzo. Del resto sono così belli che difficilmente riuscirete a interrompervi.
Devo essere sincera: appena ho avuto tra le mani I racconti delle donne l’ho soppesato con un supercilioso per quanto conciliante, bonario sospetto. A mettermi in allarme era bastata la fotografia troppo perfetta di Martha Holmes in copertina, il suo bianco e nero così luminoso e scolpito. Poi la sfacciata semplicità di quel titolo. Come se non fossero passati trent’anni e parecchi quintali di carta stampata da quando Joyce Carol Oates cominciava un suo celebre saggio domandandosi quale fosse il reale «stato ontologico dello scrittore che è anche una donna». Ogni antologia è un compromesso con lo spazio, perfino con i criteri stessi che il curatore si prefigge, ho pensato subito dopo aprendo il libro e disponendomi a una sorvegliata indulgenza. Mi è stato però sufficiente iniziare a scorrere l’indice per borbottare che dal volume non erano rimaste fuori soltanto Gallant e Oates, ma anche Eudora Welty e Elizabeth Bowen e Katherine Anne Porter e Edith Pearlman e Jean Rhys e Gina Berriault; e perfino, apriti cielo, le magnifiche madri Katherine Mansfield e Flannery O’Connor. Per non parlare della sparuta pattuglia di autrici italiane: Elsa Morante rappresentata da uno dei suoi non molto incisivi Aneddoti infantili e Natalia Ginzburg proprio da quel Discorso sulle donne che abbiamo letto ormai chissà quante volte. E dov’è invece Anna Banti, la prima narratrice a dedicare qui da noi una potente riflessione «sulla pietra d’inciampo d’essere nata donna»? A questo punto l’elenco si stava talmente allungando che cominciavo ad annoiarmi da sola.
Ho comunque trovato ancora l’energia per osservare che le note bibliografiche da cui è corredato il volume non potrebbero apparire più essenziali, addirittura scarne; mentre notizie biografiche, per quanto affannosamente le cerchi, il lettore non ne troverà. Nel frattempo lo sguardo scivolava di nuovo insieme alla mia curiosità verso quell’indice: ampia, molto ampia, forse troppo, riflettevo, si direbbe la definizione di racconto. Riconoscevo un monologo estratto da un romanzo, almeno un paio di essay, una sorta di memoir, perfino, in explicit, una poesia. Tuttavia la scelta di cominciare con Virginia Woolf sembra convenzionale e in realtà non lo è affatto: quel testo, La presentazione, lo ricordavo molto significativo e poco noto. Inoltre, lasciando correre gli occhi più avanti, benché non manchino autrici celebrate come Marguerite Yourcenar e Clarice Lispector, ci sono narratrici da noi quasi sconosciute: le sorprendenti Nora Ephron, Kathryn Chetkovich, Mary Miller. Confesso che arrivata fino a qui mi sono sentita in pace con me stessa: ecco – mi sono detta –, ho più o meno concluso le mie sottili considerazioni di «lettrice competente». Adesso, finalmente, posso cominciare a leggere. Ho preso carta e matita e sono sprofondata. Letteralmente inabissata dentro il libro.
Quando ne sono riemersa, grondante di felicità come dopo una lunga nuotata in mare aperto, non portavo con me solo la sensazione di avere percorso un secolo intero attraverso le parole scelte dalle donne per raccontarlo, ma anche di essermi calata sul fondale stesso della mia esperienza, dei miei sentimenti, dei miei desideri di essere umano di sesso femminile. Mi ero immersa nella sofferenza, nella privazione, nella fatica di vivere il mondo con un corpo di donna; però si era trattato insieme di un tuffo dentro la gioia dell’autonomia. Introdotti e poi annodati l’uno all’altro da brevi testi, camei che Annalena Benini scrive con lucidità e molta grazia e intensa empatia, i Racconti delle donne parlano di libertà e differenza, della libertà che nella differenza cresce, respira, si espande. Narrano infine cosa significhi essere uno scrittore donna, «una bestia che parla» avrebbe detto Anna Maria Ortese, quale responsabilità sia chiamata a prendere su di sé una donna che voglia essere anche scrittore. Chiudendo il libro ho pensato a una pagina di Virginia Woolf che si trova più o meno a metà del suo famoso Una stanza tutta per sé. In quella pagina Woolf parla a propria volta di un libro che ha appena chiuso, Jane Eyre di Charlotte Brontë, soffermandosi in particolare su una scena in cui la protagonista confessa al lettore la sua abitudine di rifugiarsi da sola sopra il tetto di Thornfield House per guardare il paesaggio lontano. È una scena in cui Brontë sembra abbandonare il suo romanzo per dedicarsi a un problema solo personale. Woolf ne ricava un monito per tutti gli scrittori donna che verranno dopo di lei.
Finché le donne non diventeranno capaci di dimenticare se stesse mentre scrivono, dice Woolf, finché resteranno in conflitto con il loro destino, i libri delle donne somiglieranno a mele guaste: appariranno tarlati dal rancore, avvelenati dalla paura e dal rimpianto. Non saranno interi né liberi. Eppure, cominciando proprio dal testo woolfiano per arrivare alla molto luminosa sequenza centrale che affianca Alice Munro a Grace Paley, la grande forza di questi Racconti delle donne si direbbe riposare anche nella capacità che ciascuna scrittrice ha di narrare una storia conservando nel cuore stesso della pagina il conflitto così doloroso ma vitale con il proprio destino. Ogni donna che scrive conosce ciò che per scrivere è costretta ogni giorno a mettere fuori dalla porta chiusa alle sue spalle. Piccole mani che bussano e sciarpe annodate male e latte che bolle troppo in fretta sul fornello se non è rimasto sul banco del negozio. Tuttavia, quando finirete di leggere questo libro straordinario, penserete anche voi che ne valeva la pena. Di lasciar perdere le sciarpe e il latte, intendo. Anche di accogliere insicurezze, timori, sensi di colpa e tenerli dentro le parole. Offrirli con le parole a noi lettori.