Quelli di Donne, sud, mafia li ho sentiti come segnali affidati al mare, pietruzze lanciate nell’acqua a disegnare traiettorie di riflessione, movimenti, correnti, turbinii. Così, date anche le mie radici siciliane, mi sono chiesta che cosa questo lavoro produrrà e cosa voglia davvero comunicare.

Il sottotitolo del documentario realizzato da Maria Grazia Lo Cicero e Pina Mandolfo recita Videolettera dalla Sicilia e vedendolo appare chiaro chi sono le autrici di questa missiva per immagini e voci: donne siciliane che, dialogando con le registe, cercano lampi di comprensione di se stesse e del luogo delle loro origini. Possibile distinguere gli uni dagli altri? Possibile “prescindere” dalla Sicilia?

Nec tecum nec sine tecum vivere possum ricordava Sciascia a proposito dell’isola dove era nato e su cui si era interrogato tutta la vita, alludendo a quella lacerante ambivalenza tra desiderio di vicinanza e voglia di allontanamento, a quel dilemma tra il restare e l’andar via, che avvolge come un vischio soave e pernicioso gli abitanti di quella terra.

Ecco: innanzi a questa scissione atavica, a questa logorante dissintonia, il film prova a sperimentare altre vie. E, pur non volendo né potendo cancellarla, la priva di centralità, lasciandola testimone muta a latere, fuoricampo dolente, provando invece a dar spazio a un punto di vista per così dire, post. Qui e ora, infatti, nell’appena trascorso 2013, in cui il film è stato girato, l’esperienza individuale e collettiva di queste donne, la loro maturità umana e professionale le ha condotte non solo alla decisione piena di restare, ma alla consapevolezza che è possibile trarre beneficio da questa scelta e agire se stesse e la Sicilia come un tutt’uno gravido di risorse. Donne, sud, mafia muove da qui.

In questa direzione, dalle conversazioni, affiorano due linee di ricerca tra loro profondamente intersecate: l’una, relativa alla scrittura come cruciale strumento della messa a fuoco e della rappresentazione di sé, l’altra, quella della partecipazione politica come enorme chance di rottura di costrizioni e stereotipi atavici, di oscure connivenze e complicità, come concreta possibilità di rigenerazione del tessuto storico-sociale.

Sulla prima riflette tra le altre la scrittrice Maria Attanasio: per lei narrazione e luogo sono strutturalmente compenetrati come impasto di storia e memoria, come eco ineludibile delle generazioni di donne che l’hanno preceduta. “Oscuramente ha risonanza il passato delle nostre madri, delle nostre nonne. I loro silenzi, le loro parole, quasi geneticamente si traducono in consapevolezza …”, dice, mentre la camera si bea della vista dalla sua terrazza, Caltagirone dall’alto e il bianco striato delle nuvole che si specchia in quello della neve che lastrica le strade. Un precipitato antico delle origini che, evidenzia Attanasio, l’accomuna a tante scrittrici siciliane: pensiamo a Maria Messina, a Goliarda Sapienza (citata in apertura del doc), o a Silvana La Spina, Elvira Seminara, Silvana Grasso o ancora a Marilena Monti – tra le presenze del film – che si sofferma sul legame tra donne, mito e Sicilia, nonché sui favolosi racconti che le sono stati tramandati unitamente alla preziosissima tecnica per pulire il pesce …

A un Sud non solo delle donne, ma nelle donne, fa riferimento Emma Baeri, femminista e storica, come a una attitudine geograficamente trasversale che implica capacità relazionale di accettazione della diversità e processi di disvelamento di figure a lungo rimaste storicamente in ombra. Per questo, dall’intimo della sua casa-monile catanese, istoriata di libri, quadri e locandine cinematografiche, ricorda con gioia ciò che “la campanella della ricreazione del femminismo” ha rappresentato e continua a rappresentare – mentre fa breccia nel discorso la forza deflagrante di Franca Viola che osò mettere in discussione il secolare concetto di “onore” e relativo ridurre le donne a puro oggetto di possesso -.

Se il sud non è più solo deprivata fissità geografica da destino, ma dimensione dinamica stratificata e complessa, allo stesso modo possono riposizionarsi i concetti di “periferia” e “centro”. E così che Caltagirone incarna per Attanasio un osservatorio privilegiato per comprendere il mondo e “le sue tante derive di voci e di suoni”. Se fosse andata a Milano – dove peraltro si proietta con la narrazione, immaginando “Nordia”, la città del suo ultimo romanzo – “si sarebbe sentita sommersa”. Riaffiora così per un attimo il dissidio sciasciano di cui si diceva, mentre fiotti di lava si impossessano dell’immagine, in uno dei link più intriganti del montaggio … sommergere e essere sommerse. Questo nucleo di energia è stato più volte interpretato come matriarcato – continua la scrittrice – ma lei lo vede anche come espressione di forza immane, come potenziale in ebollizione. Lo stesso che ha animato tante sue conterranee che hanno avuto il coraggio di forare l’ordine costituito: come Concetta La Ferla, protofemminista e comunista, cui ha dedicato un suo scritto, come Grazia Giurato, coraggiosa ex consigliera comunale a Catania, o come Marinella Fiume, autrice ed ex prima cittadina di Fiumefreddo, che intesse il filo del doc sia rievocando il clima post-Tangentopoli delle prime elezioni a designazione diretta del sindaco, che portarono 22 donne alla guida di altrettanti comuni, sia rivelando le minacce subite e il suo aver rifiutato la scorta. Dalle sue parole riemerge anche la storia di Rita Spartà, donna di Randazzo che conosce piccolissima la morte del padre e dei fratelli, l’eclissi totale dell’elemento familiare maschile per mano della mafia. Fiume la immagina come Antigone siciliana che non solo denuncia gli assassini dei suoi, ma anche, dopo vent’anni, lo Stato, accusandolo di aver mancato nelle indagini. E ancora si scorge il volto e si ascolta la voce di Michela Buscemi, testimone di giustizia dopo l’uccisione di due dei suoi fratelli: racconta della sua partecipazione al maxi processo dell’84, le intimidazioni ricevute e il suo lasciare solo dopo aver spiegato in aula il perché. Oggi fa parte di Libera e continua ad agire, come l’Associazione Antimafia Rita Atria, nata nel ‘94 in memoria di quella ragazza che a soli 17 anni seppe dire il suo No, divenendo collaboratrice di giustizia e mettendosi contro la sua stessa madre, una ragazza che tutta la sua speranza aveva fondato in Paolo Borsellino e che dopo la morte di lui, non vide motivi per restare in questo mondo. E ancora Piera Aiello, cognata di Rita,che per ribellarsi ha dovuto privarsi del suo stesso nome e della sua terra, o Carmela Iaculano (“I miei figli devono capire che cosa è il bene e che cosa è il male: io l’ho imparato quando ho iniziato a collaborare”). Sono loro le guide in una lotta che vede centrale l’istruzione e il nutrire le generazioni che verranno con il latte della legalità. “Andate dai ragazzi che vivono nella mafia e dite loro che c’è un altro mondo”, era questo in desiderio di Rita Atria. “Solo le donne parlano contro l’ordine del destino”, ha scritto Maria Pia Daniele ne Il mio giudice, testo teatrale a lei dedicato.

E il documentario si apre alle manifestazioni delle madri (quelle che già lo sono e quelle che vorrebbero diventarlo partorendo figli sani), contro il Muos e contro l’annientamento del loro territorio a causa dell’arroganza criminale degli interessi Usa. Quale modo migliore per combattere quel senso di morte sempre presente nell’anima dei siciliani, per infrangere quelle catene spesse e arrugginite, su cui la camera si sofferma a lungo, indugiando in prossimità del mare? Quindi le donne del Comitato antimafia 22 luglio – non più “isole nell’isola” – che la scorsa estate innanzi al Tribunale di Palermo hanno espresso tutto il loro esserci a fianco del pm Nino Di Matteo e della sua osteggiata battaglia per la verità e per una Sicilia altra …

Donne, sud, mafia, dunque. Un titolo un po’ “elenco”, un po’ scaletta mediatica, che adombra un lavoro che è uno scrigno di “ipertesti” con cui confrontarsi e da dilatare ad libitum …. E le destinatarie, i destinatari di questa lettera? Sono le stesse mittenti, sono le altre donne dei Sud, dei Nord del pianeta, è il mondo?

Comunque sia. Dirsi può essere un modo per restare, per non pascersi nel lamento che atrofizza, per aggirare le mille disfunzioni, i terribili difetti dei siciliani, per trasformare quel famoso orgoglio, quell’egotismo di rimando che sempre Sciascia riconduceva alle violenze subite e a una conseguente debolezza – Sicilia chiangi, canta Rosa Balistreri nel doc – in coscienza della propria specificità di donne siciliane. Creatrici di sé e del futuro. Allora quel trenino del finale, che viaggia sulle note potenti di Giuni Russo, potrà continuare ancora i suoi giri interni, forse cercando, nei suoi tempi biblici e surreali, chiavi interiori imprevedibili. E insieme puntando altrove, verso il mare.

maria_grosso_dcl@yahoo.it