I programmi di Virtual Reality sono sold out dall’inizio del festival, molto più che qualsiasi proposta in sala, appena aperte le prenotazioni – spiegano gli organizzatori – gli accessi alle postazioni risultavano esauriti; in particolare A linha di Ricard Laganaro – premiato all’ultima Mostra di Venezia – un’immersione nella San Paolo degli anni Quaranta attraverso la storia d’amore di due personaggi, Rosa e Pedro, e Battle Scar – Punk Was Invented by Girls di Nico Casavecchia e Martin Allais, anche questo il racconto di una città e di un’epoca, New York alla fine degli anni Settanta nelle avventure di due ragazze, Lupe e Debbie. È seguendole nelle scoperte, nei disastri, nei rischi quotidiani in una metropoli non ancora gentrificata, che scopriamo insieme a loro la Bowery della scena punk, i segreti della leggendaria Elda Stiletto, le lotte tra gang e soprattutto la fatica di resistere anche se si è ragazze toste. Ce lo spiega con chiarezza Beth B perché – come suggerisce il titolo del suo omaggio – «War is Never Over», per le donne, per le artiste, per chi rifiuta di sottomettersi alle regole del gender, di addomesticare l’immaginario alla loro rappresentazione la «guerra non è mai finita».

OGNI FILM di Beth B. lo rivendica e nel programma che lei stessa ha curato, il genere non riguarda è qualcosa che coinvolge il funzionamento del mondo, la biopolitica, la società, la cultura. Lo urla graffiando il microfono nel suo magnifico spoken word che ha chiuso l’omaggio ieri, Lydia Lunch, parole contro il potere, Trump, la guerra, le violenze, la sottomissione. Insieme a Beth B. a cui la lega una lunghissima collaborazione artistica ha accompagnato ogni proiezione di questa sezione che torna, dal punto di vista delle donne – e senza farsi attraversare dall’«obbligo» del #MeToo – a un’epoca e a un movimento di cinema e di sperimentazione che mischia con irriverenza la vita e la ricerca di una libertà del gesto artistico cercandone l’attualità nel nostro tempo. New York No Wave, il punk e le infinite possibili variazioni del godardiano Alphaville, la notte e il noir, la sessualità, il corpo, l’erotismo, il desiderio: le immagini in forma di guerriglia.

Beth B appare sulla scena underground newyorchese negli anni Settanta, ha studiato arte che porta dentro alla sua ricerca, col marito Scott B utilizzano per i primi cortometraggi l’8 millimetri ma lei ama unire alla pellicola musica, performance, sminuzzando le regole dei generi come quelle del gender appunto. I loro soggetti sono il controllo politico, la tortura, la violenza sessuale e familiare, il riferimento è il punk, coinvolgono altri artisti della scena No Wave come Lydia Lunch, Amos Poe, John Lurie, Jenny Holzer. Lei racconta i club di band come Dominatrix – il clip The Dominatrix Sleeps Tonight (1983) venne proibito in tv – e mette in scena relazioni di potere come in Two Small Bodies: un bimbo scomparso, figlio di una hostess di un club di strip tease, un investigatore, il gioco dei ruoli tra i due, l’umiliazione, il ricatto, i diversi aspetti del femminile, le contraddizioni senza moralismo. Un incastro di specchi – reso più ambiguo dall’interpretazione in doppio ruolo di Neal Bell – che spiazza ogni nostra certezza di spettatori.

NEL PROGRAMMA oltre alcuni «classici» – anche se mai visti abbastanza – come Born in Flames di Lizzie Borden (1983) ovvero la lotta per l’eguaglianza delle donne come lotta contro il razzismo e le classi, o I Shot Andy Warhol di Mary Harron, una «investigazione» dell’universo di Valerie Solanas che nel ’68 sparò a Warhol, Beth B ha presentato Stiletto di Melvie Arslanian (1981), mai restaurato e a quanto pare rimasto invisibile per oltre trent’anni – la regista, che era nata in Libano, ha girato dopo solo un altro film, Fading (1984) ed è morta nel 1998.

Protagonista è Tina L’Hotsky (anche interprete del corto di Beth B, Barbie) si chiama Nadja, sta cercando chi ha ucciso sua sorella. Girato al Chelsea Hotel (vi appaiono anche Amos Poe, Jospeh Kosuth, Gary Indiana), utilizza come linea narrativa il noir sospendendo l’azione nei gesti di Nadja, nei suo occhiali scuri e nelle parrucche, nella ripetizione del crimine che diviene quasi un’allucinazione fantastica. È un film eccentrico, che sembra quasi un’improvvisazione jazz Stiletto, immerso nel cinema pienamente postmoderno e al tempo stesso, pieno di detour, di invenzioni a partire dal corpo dell’attrice.

COME pur citando apertamente l’espressionismo fa Sara Driver in You are Not I (a lungo considerato perduto e poi ritrovato nel 2008 tra le cose di Paul Bowles), un viaggio nelle fantasie schizofreniche della protagonista fuggita da una clinica psichiatrica, distorte nella musicalità elettronica di Phil Kline – e nel bianco e nero di Jarmusch – in cui il riferimento viene reinventato nel sentimento del tempo, tra le sue tensioni e i suoi vissuti.