Chi si è schierato con maggior vigore contro le pluricandidature? Risposta facile: i partiti contrari alla nuova legge elettorale. Innanzitutto quelli oggi nella lista Liberi e Uguali e il Movimento 5 Stelle. Quali liste hanno fatto maggior ricorso alle pluricandidature? La risposta può sorprendere. Al primo posto c’è Liberi e Uguali con 111 casi di pluricandidature tra camera e senato, al secondo il Pd (88 casi) e al terzo il Movimento 5 Stelle (84).

Il dato è contenuto, tra gli altri, in uno studio pubblicato ieri dall’Istituto Cattaneo che ha preso in considerazione le liste di candidati di sei partiti (oltre a quelli citati, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega). Va subito aggiunto però che la legge consente fino a sei pluricandidature (una nel collegio uninominale e cinque nei collegi plurinominali) mentre la gran parte dei pluricandidati di Leu (81 su 111) corre in due sole posizioni: uninominale e capolista in un collegio. Il motivo è chiaro: la lista di Grasso non ha praticamente chance di vincere nella sfida maggioritaria dunque può garantire l’elezione delle sue «teste di serie» solo nel proporzionale, d’altra parte però ha bisogno di mettere i migliori nell’uninominale per attrarre voti. Per il movimento 5 Stelle la totalità delle pluricandidature segue questo schema 1+1, anche se va detto che i pentastellati hanno assai più chance di conquistare i collegi rispetto a LeU. Un ricorso alle pluricandidature più contenuto in cifra assoluta è quello del centrodestra, (70 per Forza Italia e per la Lega, 49 per Fratelli d’Italia, sempre contando insieme camera e senato) ma nella maggioranza dei casi si tratta di candidati riproposti in più di un collegio plurinominale. Il partito di Meloni ha il record delle sei pluricandidature, otto (tra le quali Meloni, La Russa, Santanché, Frassinetti), al secondo posto il Pd con tre pluricandidate presentate sei volte: Maria Elena Boschi, Maria Anna Madia e Simona Malpezzi (quest’ultima al senato).

Sono infatti soprattutto le donne a essere state pluricandidate, e il motivo non è certo quello di promuoverne l’elezione, come nota il Cattaneo: «C’è da aspettarsi che queste pluricandidature apriranno la strada, per ogni candidata eletta, e cinque (o quattro, o tre) uomini». Il Rosatellum prevede infatti l’obbligo di alternanza di genere nelle liste, oltre a imporre la quota massima di genere del 60% per candidati all’uninominale e capilista su base nazionale. Sarà interessante vedere quanto questa proporzione imposta «in entrata» sarà poi trasferita nei risultati e dunque nella composizione effettiva delle camere.

Un secondo elemento di riflessione proposto dall’analisi sui candidati riguarda il grado di rinnovamento che ci si può attendere nelle prossime assemblee parlamentari. Il tasso di candidature «nuove», cioè di candidati alla prima esperienza, è alto: il 75% nei collegi uninominali e il 79% nei collegi plurinominali. Con punte del 92% per i candidati di LeU nel maggioritario e del 95% di Fratelli d’Italia nel proporzionale. L’istituto Cattaneo però suggerisce cautela. Perché più della cifra assoluta della candidature «nuove» conta la possibilità concreta che i candidati alla prima esperienza siano eletti. Possibilità che non sembra molto alta, visto che le candidature dei neofiti abbondano all’uninominale per quei partiti che hanno pochissime (LeU) o ridotte (M5S) possibilità di vincere nei collegi, e quanto alle liste proporzionali i candidati alla prima prova sono quasi sempre sistemati nelle ultime posizioni, quelle dove sono ridotte le chance di conquistare il seggio. Guardando ad esempio il Pd, che ha i gruppi uscenti più numerosi, e fermandosi alle prime due posizioni del listino, sono 105 i candidati con una o più legislature alle spalle e solo 53 quelli alla prima prova.