Le donne pittrici in età moderna non sono tante se si escludono i celebri casi di Sofonisba Anguissola, fra Cinque e Seicento, e della caravaggesca Artemisia Gentileschi, figlia d’arte di Orazio rinomato pittore, con la vita drammatica che si sa, segnata dallo stupro subìto da Agostino Tassi e dal conseguente umiliante processo. Nel XVIII secolo c’è come una rinascita di quella che si indica come l’altra metà del mondo: è nell’ordine del secolo dei Lumi. Le donne hanno assunto un loro status che è fatto di autonomia e affermazione sociale, e le arti ne sono parte.
Peintres femmes, 1780-1830 Naissance d’un combat è una mostra a cura di Martine Lacas, con circa settanta opere provenienti da molti musei del mondo, ospitata, fino al 4 luglio, al Musée du Luxembourg di Parigi. Di un combattimento si tratta: possiamo seguirlo in un paese come la Francia, dove si vide con forza, forse per la prima volta in Europa, l’affermazione delle donne nell’ambito delle belle arti, nelle esposizioni pubbliche dei Salons, con una presenza sul mercato e una critica sempre più attenta a questa produzione su gazzette e riviste. Essa segna una radicale mutazione del gusto come pratica sociale: d’altronde è il tempo dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, e molte tavole dell’opera sono dedicate alla moda e ai costumi. In pubblico e nei salotti le donne non solo erano invitate, ma alcune di esse facevano delle loro stanze un luogo d’incontro in cui tè, cioccolata e sofisticati pasticcini si intrecciavano a forbite conversazioni che potevano essere galanti ma nondimeno letterarie, filosofiche, artistiche.
A principiare dalla seconda metà del Settecento questo è il clima che si respira a Parigi, con diramazioni in tutte le capitali europee, da Londra a San Pietroburgo ma anche nella Roma papalina, un clima che diviene con la Restaurazione non meno vivace, seppure forse, per necessità, meno esibito. Con l’età del Romanticismo, fino allo scadere dell’Ottocento con l’Impressionismo, le donne sono onde sulle onde di un mare in piena, capaci di contribuire rilevantemente alla crescita della comunità culturale della Grande Nation. Ma la mostra si ferma al 1830 e atteniamoci a essa.
La storia della pittura era stata dominata da David, e poi lo sarà da Gérard François, Antoine-Jean Gros, Girodet-Trioson, le tre rinomate G della pittura francese, quasi come un logo contemporaneo. Ma questo dominio era stato spezzato da ciò che fu un vero e proprio coup de théâtre quando, nel 1783, furono accolte all’Académie royale de peinture et de sculpture Elisabeth Vigée-Lebrun e Adélaïde Labille-Guiard.
La mostra è articolata in quattro sezioni: Il diritto di essere donne, Imparare, Salon, Io pittrice. Non si può che iniziare con Elisabeth Vigée-Lebrun, 1775-1842, che mostrò un talento precoce: già da piccola disegnava dappertutto, sui muri della scuola non meno che sui suoi quaderni. Aveva circa otto anni quando suo padre, estasiato davanti a un suo disegno, le profetizzò un avvenire di pittrice. In un autoritratto, del 1800, si mostra insieme all’imperatrice russa Maria Fèodorovna, e spicca per la straordinaria eleganza degli abiti, a partire da un sontuoso cappello. Già nel 1783 aveva avuto modo di ritrarre Maria Antonietta, non certo una bellezza ma elegante in un fastoso abito bianco con una rosa in mano. Elisabeth Vigée-Lebrun è anche una scrittrice di talento e dal suo viaggio per l’Italia trasse un delizioso libro memorialistico, Ricordi dall’Italia, che fu anche tradotto da Sellerio. A Napoli dipinse il ritratto forse più celebre di Lady Hamilton, la cui bellezza divenne un mito, e quelli della corte dei Borbone, a partire dalla chiacchierata regina con i suoi pargoli.
Marie-Gabrielle Capet cambia radicalmente registro e dipinge non un ritratto singolo – genere dominante – ma un atelier con tante persone che la circondano mentre fa il ritratto, 1800 circa, a un personaggio importante dell’arte del tempo, il senescente Joseph-Marie Vien, direttore dell’Accademia di Francia a Roma, prima in Palazzo Mancini sul Corso e poi, più tardi, in Villa Medici. Molti, in mostra, gli autoritratti, come quello di Julie Duvidal de Montferrier, a mezzo busto con un rosso copricapo che ne incornicia il dolce incarnato: indossa un abito blu su una veste dorata, alle spalle si scorge una quercia. Ma Labille-Guiard si ritrae con due allieve mentre è intenta alla tavolozza: negli interni conosciamo ogni cosa di arredi e suppellettili, dunque le pittrici vogliono far conoscere questo loro status di artiste quando si riprendono al lavoro, e alcune evocano fini tratti per così dire mitologici, cioè alludono all’Antico.
Non è il caso di Adèle Romanée o di Marguerite Gérard. Quest’ultima dipinge una musicista con la chitarra, l’abito giallo quasi dorato che dà luce alla tela, mentre lei, seduta con la mano sollevata nell’atto di dipingere, le fa il ritratto. In Maternité si autorappresenta seduta con un infante in braccio, lo sposo la guarda amorevolmente. Alla Maternità raffaellesca si ispira invece Marie-Victoire Jaquotot, mentre per Corinne au cap Misène, d’après Gérard, bella eroina ha una cetra in mano e sul fondo c’è un Vesuvio fumante.
Numerose sono le scene di scuole, come quella di Marie-Amélie Cogniet, che raffigura l’atelier di Léon, il padre, con tanti calchi antichi. Una scena sontuosa è quella che riprende L’Atelier d’Abel de Pujol, 1822, dipinto da Adrienne Marie Louise Grandpierre Deverzy: un grande salone illuminato dall’alto da un lucernario con decine di visitatrici o allieve che attorniano il pittore, alle pareti dipinti e nelle bacheche calchi antichi.
In assoluto tra le più felici tele in mostra il ritratto di una giovane mademoiselle che si allaccia uno scarpino bianco: ci guarda con i suoi intensi occhi bruni e un lieve sorriso increspa le rosse labbra, ha un velo nero che le copre il capo e scende lungo l’abito: la pittrice è Nissa Villers; l’opera, del 1804, fu esposta al Salon. L’affiche della mostra e la copertina del catalogo non a caso sono dedicate a questa tela: a me fa ricordare il clima della Carmen di Bizet, forse per il velo nero sul capo della fanciulla, ma qui non ci mantiglie né toreri…
Tutta virata sul bianco la veste della ragazza inginocchiata di Aimée Brune: siamo nel 1839, in piena temperie romantica, e ci sovviene il nostro Francesco Hayez. Non manca una novizia dipinta, nel 1811, da Jeanne Elisabeth Chaudet: un’epifania della manzoniana Monaca di Monza? Andare per mostre serve anche a questo: far girare la rotella delle associazioni, dei rimandi, delle antitesi.
Di alcuni autoritratti già si è detto: ma due mi paiono davvero antitetici. Hortense Haudebourt-Lescot si ritrae, nel 1800, a mezzo busto: il suo volto emerge pallido da una folta capigliatura riccia e nera, indossa un abito nero che ha un risvolto di seta bianco. Non mi pare una donna particolarmente allegra. Constance Mayer è molto più giovane: si ritrae, nel 1801, seduta, appoggia su una mano la testa bruna e riccia e ci guarda molto pensierosa. L’abito di organza bianco le modella il bel corpo e vien voglia di sapere cosa pensi questa così seducente e giovane pittrice. Ma la tela non lo dice, resta a noi immaginarlo. Isabelle Pinson realizza una piccola tela con una ragazza che cerca di afferrare una mosca sul vetro.
Et in Italia ego è il titolo di una sottosezione delle pittrici in viaggio nel Belpaese, e qui entrano in scena i paesaggi che vanno dalle Alpi innevate alle classiche vedute dei Fori e delle Antichità di Roma, come quella, mattinale, di Louise-Joséphine de Sarazin de Belmont, a cui segue il panorama di Napoli da Posillipo, 1842.