Da principio non è facile comprendere cosa succede sulla scena, in che luogo stiamo. E questo benefico spaesamento dura in effetti fino alla fine. Anche dopo che il gioco è diventato più chiaro. C’è una donna che balla da sola nel cerchio di luce che esce da una grande macchina del vento che troneggia sul fondo della scena. Ci sono intorno anche dei drappi argentati che pendono dall’alto, sui lati, ma sembrano funzionali soltanto al violento strappo con cui poi la protagonista li tirerà giù. E c’è un uomo che balla anche lui una sorta di tip tap, e porta in capo un cappello a cilindro o un paio di orecchie da Mickey Mouse. Parlano di Walt Disney, che è un genio assoluto. E delle implicazioni morali di Biancaneve e i sette nani. Da qualcosa abbiamo compreso che lui è il Führer dei tedeschi, o una sua onirica evocazione, fa infatti anche un meccanico saluto nazista.
Magda e lo spavento è il terzo tratto della trilogia dedicata da Massimo Sgorbani alle «innamorate dello spavento», le donne di Hitler, morte tutte con lui nel bunker sotto la Cancelleria del Reich negli ultimi giorni di Berlino (allestito come i due precedenti dal milanese Teatro i, l’abbiamo visto a India). Si dice donne con intenzione. Perché tutte, in questi anni, hanno preso il corpo di Federica Fracassi sotto la regia attenta di Renzo Martinelli. Blondi, Eva, Magda. Anche se la prima, Blondi, è una cagna, una femmina di pastore tedesco, la prima anche a morire per verificare gli effetti del cianuro. Soluzione finale.
Magda è Magda Goebbels. Moglie del gerarca nazista nonché fedelissima del suo Führer con cui inscena un vero e proprio dialogo filosofico, dove qua e là si insinua una nota personale, la spia di una passione che va oltre la banalità dei rispettivi coniugi. Magda et son maître, vien da dire. Ma i ruoli continuamente si scambiano. Perché è lui, l’elegante e istrionico Milutin Dapcevic, a fare continuamente ricorso all’autorità intellettuale di lei. Cosa pensi di Donald Duck?
E lei fra un passo di danza e una canzone è bravissima a fornire ogni volta la spiegazione giusta cioè in linea con le teorie razziali del momento. Qual è il ruolo dei sette nani, esseri deformi e quindi evidentemente inferiori. E perché siamo portati a simpatizzare per Mickey Mouse, un topo che andrebbe invece sterminato. Tutto, morale estetica politica, qui passa attraverso i capolavori di Disney. Capolavori, sì. Altro che Eva Braun fissata con Via col vento.
La struttura drammatica di Sgorbani si snoda attraverso tre stazioni, tre avvicinamenti progressivi al momento in cui lei, la madre, là sotto darà la morte ai suoi sei figli, incapace di pensare che possano sopravvivere alla fine del Reich. Dal rifugio alpino al bunker berlinese. Inseguiti da una sorta di perenne maltempo, tuoni lontani che forse sono già esplosioni. Quel mondo infantile che si allarga da ultimo alle filastrocche di Pierino Porcospino finisce per fare corto circuito con il finale ineludibile, incombente per tutto il tempo dell’azione, come la comica difficoltà di ricordare il nome di tutti i sette nani, ne manca sempre uno, si salda alla ripetizione dei nomi dei bambini. Quando la storia è un incubo spaventoso.