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Donne, Messico e Libertà: Tina Modotti

Donne, Messico e Libertà: Tina ModottiDalla mostra «Tina Modotti. Donne, Messico e Libertà», Palazzo Ducale, Genova (ph Manuela De Leonardis)

Fotografia Dopo Milano, arriva a Genova, Palazzo Ducale, l'esposizione dedicata alla fotografa nata a Udine e morta a Città del Messico

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 2 luglio 2022

«Il volto di Tina è nobile, maestoso, esaltante. Il volto di una donna che ha sofferto… che ha vissuto intensamente, profondamente e senza paura»: la frase è di Edward Weston, tratta da The Daybooks of Edward Weston di Nancy Newhall. Chi meglio di questo celebre fotografo che condivise con Tina Modotti (Udine 1896 – Città del Messico 1942) un’importante storia sentimentale intrecciata saldamente con quella professionale – è lui l’autore nel 1924 degli intensi ritratti di Tina mentre recita, Messico – poteva inquadrare la personalità di Tina Modotti? Una donna affascinante, emancipata, autonoma e fuori dagli schemi le cui vicende biografiche hanno troppo spesso deviato l’attenzione dal suo lavoro fotografico che mostra originalità nella sperimentazione formale e compositiva, ma soprattutto è il prodotto di uno sguardo che si è saputo rinnovare, rivolto empaticamente verso il soggetto. A sottolineare queste componenti è Biba Giacchetti, curatrice della mostra Tina Modotti. Donne, Messico e Libertà, organizzata in collaborazione con il Comitato Tina Modotti e allestita nelle sale di Palazzo Ducale a Genova (fino al 9 ottobre), seconda tappa dopo quella inaugurale al Mudec Photo di Milano accompagnata dal catalogo edito da 24 ORE Cultura. «Sarebbe interessante mettere a confronto Tina Modotti con altre fotografe del tempo come Dorothea Lange, Consuelo Kanaga, Margaret Mather e Imogen Cunningham.

Paradossalmente era un’epoca in cui le donne si esprimevano con grande libertà, ma è Tina che comincia con le istanze sociali e loro seguono», afferma la curatrice. Assunta Adelaide Luigia (Tina) Modotti ha 33 anni e vive in Messico da sei – arriva con Weston dagli Stati Uniti, dove è emigrata nel 1913 provenendo da una numerosa famiglia operaia di idee socialiste costretta a lasciare il Friuli; a Los Angeles nel 1920 è attrice del cinema muto e con il marito poeta-scrittore-pittore Roubaix de l’Abrie Richey (Robo) frequenta i circoli culturali d’avanguardia – quando pubblica sulla rivista Mexican Folkways il manifesto Sobre la fotografia (1929). Riflesso della sua militanza politica, il testo si conclude con questa frase: «La fotografia, per il fatto stesso che può essere prodotta soltanto nel presente e sulla base di ciò che oggettivamente esiste di fronte alla camera, si impone come il mezzo più soddisfacente per registrare la vita oggettiva in tutte le sue manifestazioni; da ciò il suo valore documentario, e se a questo si aggiunge la sensibilità e la comprensione del problema, e soprattutto un chiaro orientamento sull’importanza che deve assumere nel campo dello sviluppo storico, credo che il risultato meriti di occupare un posto nella rivoluzione sociale, alla quale tutti dobbiamo contribuire».

Agire per Tina Modotti vuol dire guardare in faccia la realtà che la circonda, magari da prospettive diverse come ha visto nei film russi «esportati» in Messico da Aleksandra Kollontaj, «soprattutto i lungometraggi di Dziga Vertov che è un genio assoluto delle riprese: non racconta la storia dell’individuo ma la fa diventare emblematica attraverso i diversi punti di vista» – afferma Biba Giacchetti – «Tina inizia a fare la stessa cosa. L’apoteosi è l’immagine costruita di Donna con bandiera».

La fotografa avverte l’urgenza del cambiamento attraverso l’impegno politico, lo ricordano elementi iconografici come la falce e il martello, simboli ricorrenti nelle sue fotografie di quegli anni associati al sombrero, alla pannocchia, alla cartucciera, alla chitarra. Gli ideali devono fare i conti con il reale: la miseria, i bambini, la condizione delle donne, i lavoratori, le riunioni sindacali, i villaggi rurali, la scuola di educazione agraria, la sede del partito comunista del Messico, la redazione della rivista El Machete, le manifestazioni del 1° Maggio con Diego Rivera e Frida Kahlo, le donne di Tehuantepec. Con la macchina fotografica Graflex (che ha sostituito la più ingombrante Corona che usava in studio per i ritratti) Tina fotografa anche l’amica Concha Michel, cantautrice e attivista politica mentre suona la chitarra e ritrae di profilo il rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella, uno dei suoi più grandi amori, fotografando anche un dettaglio della sua macchina da scrivere con quella manciata di parole che emergono dal foglio dattiloscritto («artística», «en una síntesis», «entre la»…), citazione degli scritti di Trotsky su arte e rivoluzione. Di Mella la fotografa scatterà anche l’ultima immagine, il 10 gennaio 1929, con gli occhi chiusi nell’obitorio di Città del Messico, vittima di un efferato crimine politico.

Ma è l’attenzione alle mani, sempre in primo piano, a confermare il valore che l’autrice dà alla dignità del lavoro: le mani dell’operaio o della lavandaia come quelle del burattinaio Louis Bunin, a cui dedicò un portfolio, esemplare metafora del potere. Il centinaio di fotografie esposte a Palazzo Ducale – insieme ai vintage con le lettere e altri documenti provenienti dall’eredità della sorella Jolanda – riflettono la coerenza tra sguardo, pensiero e azione, particolarmente evidente nel nucleo di immagini del periodo messicano, soprattutto tra il ‘26 e il ’29 prima dell’espulsione di Modotti dal paese, sotto la falsa accusa di aver partecipato a un attentato contro il capo dello stato. Immagini che provengono tutte dall’archivio del Comitato Tina Modotti, stampate negli anni Settanta dai negativi originali dal fotografo Riccardo Toffoletti a cui si deve la riscoperta e la salvaguardia della memoria della figura di questa straordinaria fotografa a cui nel 1977 il MoMa di New York dedicò una mostra con 40 fotografie curata da John Szarkowski. Marì Domini, moglie di Toffoletti e presidente del Comitato Tina Modotti, ricorda che Bianca la figlia che Vittorio Vidali (politico antifascista e ultimo compagno della fotografa dal 1930 fino alla sua morte nel ’42), quando arrivò in Italia dalla Russia aveva con sé una busta grigia con il nastro rosso contenente i positivi e i negativi che Tina Modotti era riuscita a portare con sé dal Messico, prima a Berlino e poi a Mosca, lasciandole lì quando era rientrata a Città del Messico.

«L’incontro con Vittorio Vidali avvenne nel 1971 in una serata di musica e poesie in onore dei reduci di Spagna. Qualcuno disse che era un peccato che nessuna donna friulana avesse partecipato alla guerra di Spagna e Vidali disse che non era così e parlò di Tina Modotti e del suo lavoro fotografico. Toffoletti, che era uno degli organizzatori della serata, gli chiese di portare qualche fotografia, essendo lui stesso fotografo era curioso di vedere il materiale. Vidali tornò con qualche foto e un libricino stampato nel 1942, in occasione della sua morte, dagli amici di Tina tra cui Pablo Neruda che avevano fatto una colletta per il suo funerale. Da lì nacque l’idea di fare a Udine la sua prima mostra italiana.» – spiega Marì Domini – «Nel tempo abbiamo ripercorso la vita di Tina, recandoci nei suoi luoghi, dalla California fino a Cuba e naturalmente a Città del Messico. Lei è sepolta al Panteón de Dolores nella tomba progettata dall’architetto Hannes Meyer, direttore del Bauhaus Dessau. Era a cena a casa sua la sera che è morta probabilmente per un arresto cardiaco».

Sulla lastra tombale, sotto il profilo disegnato da Leopoldo Méndez, sono incisi i primi versi della poesia che le dedicò Neruda: «Tina Modotti, sorella non dormi, no, non dormi: forse il tuo cuore sente crescere la rosa di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa. Riposa dolcemente sorella. Sul gioiello del tuo corpo addormentato ancora protende la penna e l’anima insanguinata come se tu potessi, sorella, risollevarti e sorridere sopra il fango».

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