Con l’assunzione di 20 braccianti in provincia di Ragusa, la filiera etica anti-caporalato No Cap quest’anno ha fatto assumere, con contratti collettivi nazionali, circa 220 lavoratori, stranieri e italiani, in Puglia, Basilicata e Sicilia, tra cui molti migranti strappati allo sfruttamento dei caporali e regolarizzati. Le aziende coinvolte sono una decina e vendono i loro prodotti a un distributore, il Gruppo Megamark, con 500 supermercati nel Mezzogiorno.

SUGLI SCAFFALI ARRIVANO i prodotti biologici a marchio Iamme con il bollino etico No Cap, che significa niente sfruttamento né gioco al ribasso sui prezzi. A guardare soltanto i numeri, questo risultato appare una goccia nel mare dell’illegalità che caratterizza il settore agricolo italiano, che impiega circa un milione e 50mila lavoratori stagionali.

Secondo un rapporto dell’Onu, i migranti rappresentano circa la metà della manodopera, con «la più elevata percentuale di lavoratori irregolari in relazione al numero totale dei lavoratori migranti». No Cap, però, propone un’alternativa allo sfruttamento, che talvolta sfocia nella schiavitù e che determina anche un danno economico per l’Italia.

Secondo il rapporto Agromafie e Caporalato della Cgil, il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura è pari a 4,8 miliardi di euro e produce un’evasione contributiva di 1,8 miliardi. In questo quadro a tinte fosche si inserisce la proposta di un’altra filiera, etica e nata dal basso, quella di No Cap, che sfida rapporti di forza nelle campagne immutati da decenni.

I prodotti di No Cap, Megamark e Rete per la Terra (foto di Maria Palmieri)

 

«Bisogna intervenire su tutta la filiera – spiega Yvan Sagnet, fondatore di No Cap, camerunense che ha sperimentato il caporalato sulla propria pelle nei campi pugliesi e che guidò la rivolta dei braccianti a Nardò nel 2011 – No Cap mette insieme lavoratori, produttori e distribuzione. I braccianti sono assunti con contratti regolari e le aziende sono messe in contatto con la distribuzione che acquista i prodotti a un giusto prezzo».

IL GIUSTO PREZZO, è questa la chiave, spiega Nicola Arena, titolare dell’azienda agricola La Vita Bio di Chiaramonte Gulfi, Ragusa, che aderisce alla filiera etica dall’anno scorso. «Se la distribuzione mi fa un giusto prezzo, posso tenere in piedi la mia attività pagando una giusta retribuzione a chi lavora per me». È il gioco al ribasso della grande distribuzione a schiacciare le imprese che poi scaricano i costi sui lavoratori. A Policoro, in Basilicata, l’azienda Aba Bio Mediterranea produrrà 950mila confezioni da mezzo chilo di uva impiegando 50 donne lucane e pugliesi che lavorano alla raccolta e alla trasformazione.

[do action=”quote” autore=”Gianni Fabbris”]In questo territorio si muovono all’incirca 30mila donne al lavoro nei campi. Non sono tutte sfruttate, ma sono molto esposte al rischio di sfruttamento[/do]

IL PROGETTO “Donne braccianti contro il caporalato” è frutto dell’intesa tra No Cap, l’azienda Megamark e l’associazione di imprese che promuovono pratiche etiche Rete per la Terra. «Stimiamo che in questo territorio si muovano all’incirca 30mila donne al lavoro nei campi. Non sono tutte sfruttate, ma sono molto esposte al rischio di sfruttamento – spiega Gianni Fabbris, presidente di Rete per la Terra – Con questo progetto diamo il segnale che è possibile innescare meccanismi positivi».

No Cap è arrivato in Basilicata un anno fa, dopo la morte della bracciante nigeriana Eris Petty Stone, 28 anni, nel rogo di un capannone della Felandina, ex zona industriale del Metapontino in cui si erano sistemati abusivamente centinaia di braccianti migranti, senza acqua, elettricità e bagni.

DOPO IL ROGO, su cui indaga la magistratura, l’area fu sgomberata e di quasi tutti quelli che vivevano lì si persero le tracce: avranno trovato altri casolari o capannoni abbandonati in cui sostare per il tempo del raccolto. Venti di loro invece hanno trovato accoglienza a Casa Betania, finanziata con l’8xMille della Chiesa cattolica e gestita da Don Antonio Polidoro.

Tra loro c’è Mohammed Suleiman, sudanese arrivato in Italia nel 2011 su un barcone, in Libia lavorava come interprete per un’azienda britannica. «Quando è scoppiata la guerra sono dovuto andare via e qui non ho avuto altra scelta che lavorare nei campi e vivere nei ghetti. La Felandina era l’unica risposta abitativa presente sul territorio per noi braccianti, un campo di lavoratori. Qui, a casa Betania, abbiamo ritrovato la dignità».

(foto di Maria Palmieri)

 

Mohammed oggi guida il minibus di No Cap che porta i braccianti nelle campagne. Le parole d’ordine, dice, sono «contratto, casa e trasporto. L’agricoltura ha bisogno di braccia, ma anche di alloggi e servizi», e se a fornirli sono i caporali il passo dal lavoro allo sfruttamento è breve. I ghetti sono bacini di reclutamento, luoghi di disgregazione, dove si insinuano e si riproducono criminalità e violenza. È fondamentale far uscire i migranti dai ghetti, spiega Francesco Strippoli di No Cap: «Tutte le persone che assumiamo erano vittime del caporalato e non è stato semplice convincerle, temevano che non avrebbero più lavorato. No Cap si occupa di tutti gli aspetti della filiera, anche degli alloggi, del trasporto, della formazione, oltre che di contratti», racconta mentre mostra il minibus che porterà al lavoro nei campi i braccianti. Sono quattro: due nel foggiano e due nel metapontino.

ALLA FELANDINA ci era finita anche Mary, giovane nigeriana che di giorno lavorava come bracciante e la sera come prostituta. Oggi vive in un’altra casa di accoglienza gestita da Don Antonio. La sua è la storia di tante donne nigeriane partite con la promessa di un lavoro e finite vittime della tratta. Senza soldi, ha dovuto barattare il suo corpo con quello che chiama «l’aiuto» fornitole dai trafficanti per raggiungere l’Italia. In mezzo c’è stata la Libia, 11 mesi di cui otto trascorsi in carcere tra botte, sevizie e prostituzione. Nel 2016 è sbarcata a Lampedusa, da lì a Torino e poi alla Felandina.

[do action=”quote” autore=”Mary”]La Felandina non era un luogo per esseri umani. Eravamo chiusi lì dentro, isolati, senza scampo. Oggi lavoro come bracciante, ho un contratto e una casa[/do]

«Non era un luogo per esseri umani – dice – Eravamo chiusi lì dentro, isolati, senza scampo. Oggi lavoro come bracciante, ho un contratto e una casa. Forse un giorno potrò far venire i miei quattro figli in Italia». L’agricoltura senza sfruttamento è possibile, dicono a No Cap, ma serve che i consumatori si interessino anche all’aspetto etico dei prodotti che acquistano. All’appello mancano le istituzioni, spesso lente e macchinose, talvolta inefficaci, come nel caso della sanatoria che è stata un flop proprio nel settore cui era mirata: l’agricoltura.