Non è stato perso nulla, di quello che è stato fatto, e tutto è nuovo. Questo l’effetto diffuso e condiviso della manifestazione NonUnaDiMeno contro la violenza maschile sulle donne del 26 novembre. Una forza viva, sfidante, immensa. Una gioia irrefrenabile. Lo dicono le donne di tutte le età, dalle bambine alle bisnonne, almeno tre generazioni dai capelli dai tanti colori che sfilavano sorridenti, allegre, determinate, per nulla obbedienti. Donne come me, felici di vedere che il lungo cammino non si è smarrito nei mille rivoli di anni confusi e difficili. Ragazze che sono venute a Roma a manifestare per la prima volta. Da sole, in piccoli gruppi. Era giusto farlo, rispondono alle domande, non se ne può più. Sono loro che guardano al futuro, con occhi diversi, eppure legati a questa storia comune. Lo dicono gli uomini della sinistra, che per una volta sono venuti senza strumentalizzare. Non c’erano obiettivi, come abbattere un governo, per cui le donne potevano venire utili. Uomini anche loro sorridenti, di fronte questa forza vitale che ha illuminato di possibilità diverse giorni così cupi. Lo dicono i ragazzi che si sono fatti trascinare dalle loro compagne, che con creatività e immaginazione hanno mostrato che si può conquistare una città senza inscenare vecchi rituali di aggressioni e scontri. Lo dicono i gruppi glbt, queer, arrivat* tutt* insieme, non perché sparisce la differenza, anzi, perché ci sono le differenze e sono tutte vere, e reali. E capire dove si incontrano, e come si incrociano senza dividersi, è questione seria, e politica.

Così grande, la manifestazione del 26 novembre, che è stata perlopiù ignorata, dai media. E dalla politica ufficiale. Una conferma. Da tempo media e politica non sanno vedere quello che realmente succede, lo stesso trattamento è stato riservato alla manifestazione del no sociale del 27, in cui c’era una parte delle ragazze e dei ragazzi del giorno prima. E che pure sarebbe rientrata nell’agenda politica ufficiale.

Così forti, le donne in campo, da spazzare via tutte le polemiche della vigilia, uomini sì uomini no, o chi ha detto che queste donne «contro» seguono una logica minoritaria, perdente. Lo schema si ribalta. Le femministe ci sono, sono egemoni, e occupano le strade, la città, la polis. Per non vederle c’è chi si mette una benda sugli occhi, e la vuole mettere a tutte e tutti. Perché un conto è celebrare, nella cronaca quotidiana, il perenne martirio della vittima. Con il rosario delle motivazioni, delle storie toccanti, dei «era una così un bravo ragazzo». Un conto è dire «non una di meno». Cioè attaccare frontalmente il patriarcato. È questo gesto che cambia la scena. Come Laura Boldrini, che toglie dall’anonimato i suoi persecutori del web. L’hate speech non è un’azione violenta, lo sappiamo. Eppure ci vuole coraggio a dire in pubblico cosa ti viene rovesciato addosso ogni giorno.

Ecco, il coraggio. Quello di chi ha voluto tenacemente la manifestazione. Di chi ha lavorato in assemblea, mostrando competenza, lavoro. Il coraggio di chi ha detto, nell’assemblea generale del 27 novembre, che la rivoluzione, o è femminista, o non è. Il coraggio di partire dal lavoro, dalla precarietà, dalla cura e della riproduzione nell’epoca dei voucher. Non è più l’epoca dei lamenti, non ci sono più figlie che dicono alle madri: non ci avete lasciato nulla. Lo sciopero delle donne, proposto nell’assemblea, appuntamento internazionale delle donne latino-americane per l’8 marzo 2017, è un obiettivo comune. Lottare contro il patriarcato è pensare a come cambiare il mondo. Quello che abitiamo insieme, tutti e tutte.