Saranno il simbolo, e forse anche la vera sorpresa, di questa decima edizione di Cheese, che comincia oggi e ci accompagnerà fino a lunedì 21 settembre a Bra, città natale dell’associazione Slow Food. Sono le donne del latte, testimoni di un universo femminile che nel settore lattiero caseario sta emergendo rispetto alla quasi totalità di malgari, allevatori e casari. Del resto, niente è più ancestrale della donna e del latte che dà vita e nutrimento, ma il lavoro con le vacche è tutta un’altra cosa, il coraggio di affrontare una vita spesso lontana da agi e mondanità non è sicuramente da tutte, le braccia forti necessarie per lavorare le paste filate sanno di caparbietà e resistenza. Eppure, le donne e gli uomini che avranno la fortuna di degustare i loro formaggi passeggiando tra le bancarelle del Mercato di Cheese e ascoltare le loro storie assistendo ai Laboratori del Gusto torneranno a casa rinfrancati nello spirito, emozionati e in qualche modo soddisfatti anche delle piccole grandi fatiche che segnano le loro giornate.

Il viaggio che Slow Food propone lungo i sentieri che ci portano alle sorgenti del latte, fil rouge scelto per l’edizione 2015, parte da lontano, «dalla fine del mondo» , per arrivare alle vette di casa nostra. Cicerone di questo cammino virtuale in giro per il mondo sono alcune delle protagoniste di Cheese. Maria Antonia Brito ed Elizabeth Noemi Medina sono produttrici del Presidio del formaggio di capra di Tucumán, una provincia dell’Argentina del Nordovest. In tutto il paese diverse varietà vegetali (mais, zucche, patate, quinoa) e animali (guanaco, lama, vicuñas) si sono arrese all’arrivo delle monocolture.

Da qualche decennio, infatti, la soia geneticamente modificata si è introdotta nel territorio e oggi occupa più della metà delle terre coltivate, secondo quanto dichiara la Fao. Perdita di sovranità alimentare, con espropri forzati e minacce agli indigeni per farli sfollare e sostituire la soia alle loro colture, spopolamento delle campagne, sono solo alcune delle denunce della giornalista Soledad Barruti, autrice del libro Malcomidos: Como la industria alimentaria nos està matando. Maria, Elizabeth e le altre produttrici del Presidio hanno scelto di continuare ad alimentare le capre con l’erba e i frutti del bosco invece che con i prodotti derivati dalla soia. L’allevamento delle capre inserito nell’ecosistema del bosco ha consentito, da una parte, di produrre un latte di alta qualità organolettica e una fonte di alimento per le famiglie, dall’altra è riuscito a diventare presidio del territorio, impedendo l’avanzata delle monocolture estensive sul bosco.

Altro continente altra storia di resistenza, dall’Argentina all’Africa centrale, dove incontriamo Leah Lekanayia che nel suo paese, il Kenya, apparteneva a una famiglia di pastori nomadi della tribù dei masai. Adesso vive a Bra, dove frequenta l’Università di Scienze Gastronomiche, e sogna di tornare a casa per salvare le terre non ancora svendute agli stranieri e le antiche tradizioni che per secoli hanno caratterizzato la sua cultura. Davanti a Leah si sono schiuse le porte della libertà quando era ancora bambina e le hanno parlato dei rischi della mutilazione genitale femminile durante la visita di una ong a scuola. Il padre, andando contro una tradizione millenaria alla quale non sono riuscite a sottrarsi nemmeno le sorelle, la salva. Leah non diventerà una «donna masai adulta», non si è sposata a 12 anni, ha studiato a Nairobi e frequentato un ambiente internazionale. Ed è proprio qui che la sua vita cambia di nuovo: conosce il regista piemontese Sandro Bozzolo che le racconta di Silvia Somà, pastora fra i monti della Val Gesso.

Leah, stupita dal fatto che esistano pastori come lei anche in Europa, segue Sandro in Italia per conoscere Silvia. Il loro incontro è raccontato nel documentario Ilmurràn – Maasai in the Alps: dalla mungitura delle mucche di prima mattina, alla cura dei vitellini e ai giorni in alpeggio. La vita per Leah si svolge come a casa, a Loitokitok, con l’unica differenza che qui con il latte si fa il formaggio. Dei circa duemila capi fra mucche, capre, pecore, asini e persino cammelli, infatti, i masai utilizzano la carne, che conservano anche quattro mesi nel suo grasso, e il latte, che trasformano in una sorta di burro usato per cucinare e come medicina.

Un destino specularmente simile segna la vita di Agitu Ideo, 36 anni, originaria dell’Etiopia e adesso felice allevatrice di capre in Trentino. Appartenente a una tribù di pastori nomadi, è stata costretta a fuggire da Addis Abeba con la famiglia quando ha cominciato a denunciare l’avanzata di multinazionali senza scrupoli in cerca di terreni fertili a pochi soldi. Agitu da giovane aveva studiato sociologia a Roma ed era tornata nel suo paese per difendere le popolazioni che vivono di agricoltura e pastorizia dal fenomeno del land grabbing, ma le minacce subite non le avevano lasciato alternativa. E così torna definitivamente in Italia per creare La capra felice, 11 ettari di terreni recuperati dall’abbandono a Valle San Felice, in val di Gresta, dove alleva 70 capre di razza pezzata mochena, tipica di queste zone e a rischio di estinzione, e 50 galline ovaiole. La sua storia è esempio di coraggio, di integrazione e riscatto, ma anche di fiducia e spirito di accoglienza. Agitu ha lasciato la sua terra, l’Etiopia, e ha scommesso su una nuova vita e un nuovo lavoro in Italia. Durante Cheese riceverà il premio “Resistenza casearia”, giunto alla quarta edizione, che riconosce l’impegno di chi a vario titolo tutela con il suo lavoro piccole produzioni in territori marginali.

Chiudiamo con una storia tutta ambientata nelle nostre valli, quella di Alessia Mazzurana, 17 anni, malgara in Valchiusella, nel torinese, al confine tra il Piemonte e la Valle d’Aosta. Qui ai tempi del boom economico, quando gli uomini scendevano ogni giorno a valle per andare a lavorare alla Olivetti di Ivrea, le famiglie sono rimaste ancorate ai loro pascoli, alle loro case, ai loro animali. Queste donne il latte ce l’hanno nel sangue e se, come nel caso di Alessia, i genitori hanno preso strade diverse e più moderne rispetto ai nonni malgari, non è un problema. Salta una generazione ma la passione, la cura, il richiamo è sempre lo stesso: allevare le vacche pezzate rosse valdostane, mungere al mattino e alla sera, d’estate portarle al pascolo facendo la tramia, cioè spostandosi da una baita all’altra alla ricerca di prati con erbe e fiori freschi, e fare i formaggi. I tomini freschi da consumare in giornata, i classici civrin della Valchiusella e le tome carrià, cioè stagionate almeno 60 giorni sotto il peso di una grossa pietra.

Alessia ha 17 anni e di strada ne deve ancora fare tanta: fa tutto da sola, ma non per questo vive una vita da reclusa, anzi, dopo il lavoro salta sul motorino e va a ballare alle feste di paese. Non vede l’ora di compiere 18 anni per fondare la sua azienda agricola, vendere i formaggi che si sta esercitando a produrre, chiedere i contributi e comprare più vacche.

Ma queste sono solo alcune delle storie e persone che potrete incontrare a Cheese. Una festa per tutta la città per dare visibilità e voce ai piccoli produttori che a vario titolo e in tutto il mondo, lavorano per preservare la biodiversità legata alle produzioni lattiero casearie e che nel fare questo diventano custodi di saperi e tradizioni, paladini della difesa dei propri territori. Il tutto sempre con un approccio che privilegia il piacere legato al cibo e la voglia di approfondire, attraverso le degustazioni e le conferenze, l’incontro con casari e affinatori e le attività per i più piccoli. Il programma completo su www.slowfood.it.