Venerdì scorso al cinema vedo il trailer di un film in uscita (che magnifico momento è sempre stato quello dei trailer in sala e come è stato violentato con tutta l’orrenda e scadente pubblicità che hanno consumisticamente aggiunto). Il titolo non lo ricordo ma parla di sport e di relazioni umane. Due giocatori di tennis, uno sbruffone maschilista e una femminista gay, si sfidano in una gara all’ultimo sangue. La regia è dei due di Little Miss Sunshine, che mi fece tanto ridere senza lasciare il cervello a casa: mi attira molto.

Mi ritrovo a pensare allo sport nel cinema e mi vengono in mente, così al volo, pochi titoli. Bull Durham: un gioco a tre mani (Ron Shelton, 1988) in cui, in effetti, le figure femminili non sono che groupies (forse nello sport si usa una parola differente che nella musica, non so), anche se di grande qualità come Susan Sarandon. Momenti di gloria (Hugh Hudson, 1981), che non mi ha cambiato la vita pur avendo avuto un grande successo. Tutti i numerosi titoli sulla boxe, una donna manco a pagarla, se non per merito di Clint Eastwood in Million Dollar Baby (2004) che ritagliando il ruolo della protagonista per Hilary Swank, le fa conquistare un Oscar come migliore attrice.

Le mogli aspettano buone buone a casa il pugile dopo l’incontro: lo consolano, lo curano, soffrono in empatia totale. Questo l’iter dell’unico, marginale personaggio femminile di Lassù qualcuno mi ama (Robert Wise, 1956) interpretato da Paul Newman e Anna Maria Pierangeli, quotata nei titoli come Pier Angeli, una delle poche attrici italiane attive nella cinematografia statunitense negli anni Cinquanta e Sessanta. Un tentativo di introdurre donne in un ambito considerato prettamente maschile lo fa, guarda caso, una regista donna, Penny Marshall (Laverne in Happy Days per chi riuscisse a ricordarla), nel 1992, con Ragazze vincenti. Qui il ribaltamento è totale e narrativamente compiuto: durante la seconda guerra mondiale, per scarsa disponibilità di elementi maschili, un allenatore forma una squadra di donne eterogenee al gioco del softball, versione edulcorata del baseball. Geena Davis, Madonna, Tom Hanks ce la mettono tutta ma il film non decolla.

Ahimè, supportando il trito e meschino luogo comune, nel cinema come nella vita, secondo cui le donne sarebbero meno attratte (o portate, a seconda del grado di pregiudizio) dagli sport rispetto agli uomini, non sono un tipo sportivo. O meglio: ho sempre pensato di essere un fisico rubato allo sport. Sin da ragazzina la struttura ossea e muscolare avrebbe ben tollerato una attività sportiva agonistica: a tredici anni rifiutai l’offerta del circolo del nuoto.

La danza tanto amata non mi entrava in testa, con passi e sequenze precise da ricordare: resta l’unica disciplina reputata di dominio femminile. Ricordo con nostalgia quanto amai Flashdance (Adrian Lyne, 1983), il ruolo della giovane e bella proletaria, operaia di giorno sexy danzatrice di notte, con il sogno di diventare professionista, interpretato da Jennifer Beals (modello di riferimento di ogni ragazzina degli anni Ottanta – e anche di Nanni Moretti che, dieci anni dopo, la invita a fare un cameo in Caro diario).
Quando esce andrò a vedere di volata La battaglia dei sessi di Jonathan Dayton e Valerie Faris con dei trasformisti come Emma Stone e Steve Carrell. Spero di ridere, piangere, emozionarmi come sempre davanti a un buon film. E magari, all’uscita, chissà, avrò voglia di provare per la prima volta in vita mia a tenere una racchetta in mano e buttare una palla dall’altro lato della rete.