Cultura

«Donne di conforto», una memoria senza pace

«Donne di conforto», una memoria senza paceL’opera che rende omaggio alle «donne di conforto» davanti all’ambasciata giapponese di Seul

Intervista Parla la scrittrice Mary Lynn Bracht, autrice di «Figlie del mare», un romanzo che dà voce alle 200mila giovani coreane e cinesi rapite dai soldati di Tokio durante la Seconda guerra mondiale e costrette in «bordelli-lager», spesso fino alla morte. Una vicenda ancora senza giustizia

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 maggio 2018

Hana e Emi sono nate in una famiglia di haenyeo, le donne che vivono di pesca nell’isola di Jeju, a sud della penisola coreana. Donne forti, indipendenti che da generazioni fanno un lavoro duro, altrove riservato ai maschi. Quando la Seconda guerra mondiale arriva sulle loro spiagge, la prima, già adolescente, salva la sorella, ancora bambina, dalle razzie dei soldati giapponesi alla ricerca di giovani da imprigionare e trasformare in «schiave sessuali» nei «lager-bordello» che sorgono nelle retrovie dell’offensiva di Tokio.

Sessant’anni più tardi, Emi cercherà ancora, tra le donne che manifestano davanti alle sedi diplomatiche giapponesi in Corea del Sud per ottenere giustizia, una traccia di Hana, rapita dall’esercito imperiale nel 1943 e che non ha fatto mai più ritorno a casa.

Con Figlie del mare (Longanesi, pp. 372, euro 18,60), un romanzo che alterna immagini feroci ad estremo lirismo, la scrittrice americana di origini coreane Mary Lynn Bracht, ha scelto di misurarsi con una delle pagine più drammatiche, e dimenticate, della recente storia asiatica. La vicenda di quelle che con un tragico eufemismo sono state definite come «donne di conforto», vale a dire le oltre 200 mila giovani cinesi, coreane, filippine, indonesiane e taiwanesi rapite e violentate tra il 1932 e il 1945 dai giapponesi. Tre quarti delle quali non sarebbero sopravvissute a quelle violenze.

Un romanzo per dare voce alle donne rapite durante la guerra e a quante chiedono giustizia in loro nome?
È molto tempo che queste donne stanno cercando di farsi ascoltare. Ho cercato di capire cosa era accaduto durante la guerra e raccontarlo a quanti, e sono purtroppo la maggioranza, lo ignorano o fingono di ignorarlo ancora oggi. Non solo in Occidente, ma anche nei luoghi in cui si è consumata questa tragedia, si fa davvero fatica a fare luce su tutto ciò. Il mio libro vuole essere un contributo, per quanto piccolo, in questa direzione.

Proprio in Corea, la memoria sembra aver trovato molti ostacoli sul suo cammino.
Dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, la Corea è diventata l’epicentro del nuovo scontro tra Est e Ovest. Prima una nuova guerra e quindi la repressione scatenata da un regime autoritario nel sud hanno reso impossibile affrontare questa vicenda. A Seul, parlare di tutto ciò era considerato «anti-patriottico» e chi lo faceva veniva accusato di tradimento. Allo stesso modo, nel nord, il corpo delle donne era considerato come il «corpo della patria». In entrambi i casi dominava la reticenza e il silenzio obbligato e perciò anche chi ricordava ha finito per tacere: era l’unico modo per continuare a vivere, o almeno a sopravvivere. Questa memoria si era però sedimentata in profondità ed è riemersa pubblicamente appena è stato possibile. A Seul, dopo il ritorno alla democrazia, il movimento delle donne è cresciuto e sono iniziate le manifestazioni del mercoledì davanti all’ambasciata giapponese: la memoria delle donne, per quanto celata così a lungo, era ancora forte.

 

La scrittrice Mary Lynn Bracht

 

Nel suo romanzo, la guerra alle donne non sembra concludersi nel 1945 ma continuare quasi fino ai giorni nostri…
In genere, quando si parla di conflitti armati nel corso della storia, si tende a descrivere solo il ruolo che vi giocano gli uomini, il loro comportamento come soldati, la vita al fronte, le battaglie. Si dimentica così completamente sia il punto di vista delle donne, sia cosa tutto questo abbia sempre significato per loro. Il fatto che sono state spesso le prime vittime di ogni guerra. Le «donne di conforto» lo sono state poi due volte: la prima per ciò che hanno subito durante gli anni dell’occupazione giapponese e del conflitto, la seconda per il modo in cui perfino il ricordo di quanto accaduto allora è stato loro negato così a lungo. Infine, il clima politico in Corea è stato tale che la repressione contro le donne non ha praticamente mai avuto fine. Il destino di Emi e Hana, da questo punto di vista, appare intrecciato non solo nel passato, ma in un certo senso anche nel presente.

Imprigionata in un bordello per militari, Hana è curata da Keiko, una anziana geisha giapponese. Un fatto che poteva trovare riscontro nella realtà dell’epoca?
Senza dubbio. Quando l’esercito di Tokio ha iniziato la sua offensiva, ha subito allestito dei «bordelli» per i soldati ricorrendo a donne giapponesi. Alcune erano geishe, altre erano detenute, altre ancora erano state vendute dai loro uomini. Poi, mano a mano che il fronte si allargava, per alimentare questi «centri» si procedette alla cattura sistematica delle giovani donne dei paesi che venivano occupati. Ho voluto raccontare anche ciò che hanno subito le donne giapponesi per far capire come quella terribile vicenda, oltre che con la guerra ebbe a che fare anche con il fascismo che dominava quel paese.

Emi rivede la sorella nella statua di una giovane, eretta davanti all’ambasciata giapponese di Seul, che è diventata il simbolo della lotta delle «donne di conforto». Dove è arrivata la loro battaglia?
Malgrado l’offensiva nazionalista e all’insegna del revisionismo storico che si è levata negli ultimi anni dal Giappone, il premier di destra Shinzo Abe pretendeva che proprio quella statua fosse rimossa dai coreani in cambio di un risarcimento economico – un accordo in tal senso fu siglato nel 2015 -, il governo attuale di Seul è invece deciso a sostenere fino in fondo le donne e la loro lotta per ottenere verità e giustizia. Al centro delle loro rivendicazioni non c’è infatti solo la necessità di un sostegno pubblico alle ultime sopravvissute, ma anche la volontà che quanto accadde allora entri a pieno titolo nella memoria collettiva, venga insegnato nelle scuole, anche in quelle giapponesi, e sia assunto collettivamente come uno degli eventi più terribili di quella stagione di guerra. Il vero problema è che si tratta però prima di tutto di una battaglia contro il tempo. Quando ho iniziato a lavorare a questo libro, alcuni anni fa, in tutta la Corea del Sud restavano soltanto 29 «donne di conforto» ancora in vita, e avevano un’età compresa tra gli 80 e i 90 anni. Quando ho consegnato il manoscritto all’editore, ne erano rimate solo 14. Questa battaglia va vinta, ma va vinta ora.

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