Un primo passo verso un nuovo assetto nelle relazioni Giappone-Corea del Sud e verso il loro definitivo riaggiustamento: è l’auspicio dei governi di Tokyo e Seul per la «risoluzione finale e irreversibile» raggiunta il 28 dicembre sulla questione delle cosiddette «donne di conforto», oltre 200 mila donne – in maggioranza coreane, ma anche cinesi, giapponesi, taiwanesi, filippine, indonesiane e olandesi – che furono costrette a prostituirsi per le truppe d’occupazione giapponesi in Asia durante la seconda guerra mondiale. Ad annunciare l’accordo, una svolta epocale a chiusura dell’anno che ha segnato il 50esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, i ministri degli Esteri, Fumio Kishida per Tokyo e Yun Byung-se per Seul in una conferenza stampa congiunta nella capitale sudcoreana.

Il nodo principale della risoluzione sulle «donne di conforto» riguarda infatti un contributo di un miliardo di yen (quasi 7,6 milioni di euro) che il governo giapponese verserà a una fondazione pubblica sudcoreana per il sostegno fisico e psicologico alle ex schiave del sesso dell’esercito nipponico. Sono 46 le donne — di età compresa tra gli 80 e i 90 anni — sudcoreane costrette a prostituirsi per i militari giapponesi ancora in vita oggi.

«È una questione che ha profondamente danneggiato l’onore e la dignità di numerose donne a causa dell’occupazione militare in quegli anni – ha dichiarato Kishida – perciò il governo giapponese riconosce le proprie responsabilità». Il ministro degli Esteri giapponese ha inoltre comunicato le «sentite scuse» e il «profondo rimorso» del primo ministro Shinzo Abe. Seul si impegna invece a rimuovere una statua raffigurante una giovane donna – simbolo delle «donne di conforto» – eretta davanti all’ambasciata giapponese a Seul.

A fine conferenza stampa il ministro degli Esteri sudcoreano Yun ha espresso le speranze sull’inizio di «una nuova era» nei rapporti con Tokyo. Il problema delle «donne di conforto» è stato infatti il principale ostacolo ad una distensione che appena tre anni fa, con il ritorno al governo di Abe sembrava impossibile. Nel 2007, quando era al suo primo mandato, l’attuale premier aveva affermato che non esistevano «prove» a testimonianza del fatto che centinaia di migliaia di donne erano state costrette a prostituirsi nelle cosiddette «stazioni di conforto», cioè i bordelli militari giapponesi.

Frasi che però andavano contro un altro documento ufficiale del governo di Tokyo, la «dichiarazione Kono», dal nome dell’allora capo segretario di gabinetto Yohei Kono, con cui, nel 1993, Tokyo aveva ammesso il coinvolgimento «diretto e indiretto» dell’esercito nel reclutamento di donne per i bordelli militari e dato il via a un fondo a sostegno delle ex donne di conforto, l’Asian Women’s Fund, finanziato da privati ma mai visto di buon occhio da Seul. La dichiarazione Kono era arrivata a conclusione di uno studio finanziato dal governo giapponese nel 1992, che attraverso l’analisi di documenti d’epoca e interviste con le donne superstiti, aveva rivelato l’origine dei bordelli come misura delle autorità nipponiche per tenere a freno un’ondata incontrollata di stupri nelle zone dell’Asia orientale occupate dai militari giapponesi tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.

L’accordo di oggi – conseguenza di un mese di trattative seguite ad un vertice tra il premier Abe e la presidente sudcoreana Park Geun-hye – è stato all’insegna del pragmatismo. In gioco c’è il ruolo del Giappone sullo scacchiere internazionale. Da una parte, Tokyo raccoglie un invito del 2014 della commissione Onu per i diritti umani a trovare una soluzione di lungo termine senza violare nuovamente i diritti delle vittime. Dall’altro cerca di rafforzare la cooperazione con Seul anche per «controbilanciare» l’ascesa della Cina.

«Siamo riusciti a fare dell’accordo un importante punto di svolta nel settantesimo anniversario della fine della guerra. Sono convinto che ora i rapporti bilaterali saranno più orientati al futuro», ha commentato il premier giapponese da Tokyo.