«Andare in spiaggia d’estate può diventare un calvario se si è algerine». Così comincia la sua intervista Leila – nome fittizio per non essere molestata – al quotidiano algerino Le Provincial. Dal 5 luglio, due volte alla settimana, decine di donne di Annaba, città balneare algerina, organizzano «uscite collettive in spiaggia».

Obiettivo: poter andare al mare con costumi interi o in bikini, senza incorrere nelle minacce o nelle molestie maschili, per far riappropriare le donne di uno «spazio pubblico».

Tutto è cominciato per merito di Leila con la creazione di un gruppo, tenuto segreto per evitare minacce e ritorsioni, su Facebook: si è passati in meno di un mese da 50 ad oltre 3.600 iscritte.

Il gruppo, dopo l’unica intervista rilasciata al quotidiano algerino, sta raccogliendo migliaia di adesioni di sostegno sui social, anche in paesi europei come Francia e Belgio.

«Da noi andare in bikini in mezzo a decine di maschi – continua Leila – può essere molto spiacevole, come può esserlo in alcuni locali o nelle strade….insieme, invece, ci sentiamo molto più sicure».

Il malessere delle algerine riguarda soprattutto l’islamizzazione dei costumi o la contaminazione di usanze – come i burkini – che provengono dai paesi del Golfo. Il movimento è per la libertà di scelta della donna anche se, ammettono le iscritte, è più facile «che una donna in bikini difenda il diritto di indossare il burkini, piuttosto che il contrario».

La discussione, sui social, rimane molto accesa. Tutte le donne iscritte non hanno paura delle minacce e sono decise a continuare perché per loro «la cultura arabo-musulmana non deve essere un pretesto per limitare la libertà di donne emancipate che studiano, viaggiano e lavorano».

L’islamizzazione della società algerina, invece, ha causato in questi anni una progressiva nascita di movimenti per la «moralizzazione dei costumi».

Eccessi che hanno portato, durante le ultime elezioni legislative di maggio 2017, alla cancellazione dei volti delle donne dai manifesti elettorali.

Dopo gli anni del Fis (Fronte Islamico Salvezza) e la guerra civile del movimento jihadista Gia (Gruppo Islamico Armato) sembrava che la presidenza di Bouteflika, al potere da oltre 18 anni, avesse arginato l’espansione dell’islamizzazione in una società considerata, insieme alla Tunisia, tra le più laiche e progressiste.

Il politologo algerino Rachid Tlemçani, dopo le elezioni legislative, ha affermato che se i partiti nazionalisti del Fronte Liberazione Nazionale (Fln) e del Raggruppamento Nazionale Democratico (Rnd) mantengono saldamente il potere, i partiti islamisti sono in crescita, mentre le forze progressiste del Fronte Forze Socialiste (Ffs) ed del Partito dei Lavoratori (Pt) hanno dimezzato i loro seggi.

La recente notizia, uscita lo scorso lunedì, di una possibile riunificazione di tutte le forze islamiste sotto il cappello del Movimento per la Società della Pace (Msp) – erede del Fis, legato ai Fratelli Musulmani – è sintomo del fatto che l’islamismo politico tenta di arrivare alle future elezioni presidenziali unito per raggiungere il potere come è avvenuto in Tunisia o in Egitto con l’elezione dell’esponente dei Fratelli, poi deposto dal golpe del 2013.

«L’importanza dei movimenti di protesta (come quello di Leila o contro il velo, ndr) – aggiunge Tlemçani – resta fondamentale perché rappresenta l’unica speranza di resistere all’islamizzazione dell’Algeria che, ad oggi, può venire solo dalla società civile, ormai delusa dal clientelismo del partito-nazione del Fln e dall’ottantenne Bouteflika».