A comporre TFFdoc, oltre alle due competizioni che indicano le traiettorie che il cinema documentario sta imboccando (Internazionale.doc e Italiana.doc), e a un ricco fuori concorso che prevede il fondamentale Ta’ ang di Wang Bing, quest’anno si affianca il focus TFFdoc/love che, attraverso sei film e una manciata di corti, declinerà il tema dell’amore. La sezione si apre con il cortometraggio Les femmes aux cents visages di Jean-Daniel Pollet, centinaia di ritratti femminili che danno corpo a un testo sul desiderio, per poi lasciare spazio al primo lungo della sezione, We Make Couples, del cineasta e artista canadese Mike Hoolboom. Nelle giornate successive spazio all’educazione sentimentale e alla trasmissione di modelli di vita e amore in opere come Diario Blu(e) di Titta Cosetta Raccagni, Terceiro Andar di Luciana Fina, Die Geträumten di Ruth Beckerman, che materializza lo scambio epistolare tra i poeti Ingeborg Bachmann e Paul Celan, per poi approdare alle vite di Thérèse Clerc, giovane moglie, madre, femminista, e poi lesbica, militante e anziana condannata da un male incurabile protagonista de Les Vies de Thérèse di Sébastien Lifshitz, film che chiude il programma e che vedrà la presenza del regista alla proiezione ufficiale del 25 novembre.
LA FILOSOFA
Il primo film che inaugura la serie di incontri con autori, filosofi, giornalisti e militanti è Donna Haraway: Story Telling for Earthly Survival del cineasta belga Fabrizio Terranova (presente, insieme alla redazione di philosophykitchen.com, il 21 novembre alle ore 14.00 nella Sala 2 del Cinema Massimo). Preceduto idealmente da Les amours de la pieuvre del 1965, raro e breve documentario sulla vita amorosa dei polpi di Jean Painlevé e Geneviève Hamon, Terranova dedica il suo secondo lungometraggio a Donna Haraway, biologa, filosofa e ora Professore Emerito di Storia della Consapevolezza in California. Nel 1991 la Haraway pubblicava il saggio Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, tradotto in italiano come Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, testo cardine di una branca del pensiero femminista. Affascinata dal potere delle bioingegnerie e ispirata dalle stravaganti bellezze sognate sui romanzi di fantascienza «al femminile», la Haraway scriveva «Siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo». Il suo obiettivo era mettere in discussione ogni certezza costituita, che in una società patriarcale come la nostra equivale a sovvertire il potere degli uomini, mutuando, dalle sue amate letture sci-fi, la produzione di utopie libere dalle schiavitù del gender.
IL CYBORG
Con un linguaggio dirompente e visionario e una ricchezza narrativa assolutamente inedita per un testo dai risvolti filosofici e politici, Donna Haraway proponeva un’alternativa sociale, immaginando assemblaggi di corpi con innesti di hardware, in parte esseri umani e in parte robot, ma senza il marchio del genere sessuale. Il cyborg così supera le dicotomie, non è condizionato dalla riproduzione biologica ma è soprattutto capace di sovvertire l’ordine costituito e farsi simbolo di riscatto per qualsiasi minoranza, allo scopo di trascendere le convenzioni e abbracciare nuove e fluide connessioni sociali. Emerge così una concezione diversa di famiglia che prevede la consanguineità fra i non-umani e le tecnologie, rifiutandosi di separare l’essere umano dalle altre specie dove il limite imposto dai nostri corpi non può e non deve necessariamente coincidere con la pelle.
IL SUO MONDO
Donna Haraway: Story Telling for Earthly Survival però, lungi dall’essere un ritratto espositivo delle teorie della filosofa americana, è piuttosto una dichiarazione d’amore per la ricchezza, la materialità e i movimenti del linguaggio. Nell’andamento fluttuante di piani e spazi temporali, Terranova abolisce le convenzioni documentarie del ritratto quotidiano, privilegiando gli spazi fisici del microcosmo californiano (popolato da cani, polpi di peluche, uccelli) e avvicinando la macchina da presa al regno bucolico della filosofa con la circospezione di un tremolante animale notturno smarrito nel bosco. Haraway viaggia così, con un distacco mai gratuito, nei ricordi infantili, nel background del suo pensiero filosofico, nella memoria di un primo matrimonio letteralmente sui generis, per poi approdare alla concretezza e alla luminosità del suo presente, della sua consanguineità con gli animali e il mondo. Emerge così un abbandono, soprattutto visivo, al potere evocativo della parola e di uno storytelling per nulla timoroso di farsi contaminare dal cartoon, da vecchi filmati di repertorio e dagli orizzonti cromatici delle copertine dei libri di fantascienza, incorporando la frontalità del pensiero alla bidimensionalità dei dispositivi più comuni del cinema di finzione. Il corpo di Donna infatti, sembra muoversi sempre di un moto perpetuo che svela palesemente il gioco del green screen e si affida con humor all’effetto speciale (polpi «minacciosi» spuntano dai bordi dell’inquadratura). Il regista riesce così a specchiarsi, grazie al potere del cinema, nel fulcro del pensiero della sua protagonista, realizzando un’ibridazione/mutamento fra documentario e fantasy e superando, come auspicato dalla Haraway in tutto il suo corpus filosofico, le convenzioni prestabilite. Le scelte luministiche infine, specialmente nell’ultima sequenza dove il racconto della cyborg Camille illumina le oscurità di una radura, istituiscono nello spazio filmico una sorta di sogno ad occhi aperti e il ritorno costante al respiro dormiente della dolce cagnolina Cayenne sembra quasi suggerire che non solo gli androidi sognano pecore elettriche, ma che anche i cani, a volte, possono materializzare nei loro sogni dei polpi giganti.