Roma, 9 febbraio 2017. Un atto d’accusa quelle sue foto in bianco e nero – potenti e dolorose – scattate in giro per gli Stati Uniti a partire dagli anni ‘80. Nel 1985 con Living with the Enemy (il libro è stato pubblicato da Aperure nel 1991) Donna Ferrato (Waltham, Massachussetts 1949, vive e lavora a New York), si è aggiudicata (ex aequo con Letizia Battaglia) il W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography, uno fra i numerosi riconoscimenti. Le sue immagini raccontano storie di donne che convivono con la violenza, consumate tra le mura domestiche, circondate da paure, sensi di colpa, omertà, silenzio, Documentarle vuol dire mostrarne la cruda realtà e permettere alle vittime di prenderne coscienza, reagire e combattere. La stessa fotografa è stata fondatrice dell’associazione non-profit Domestic Abuse Awareness con cui ha lanciato la campagna I Am Unbeatable. Diana, Rita, Hedda… lacrime, volti tumefatti, ferite sanguinanti: il telefono è l’elemento ricorrente in più di un’immagine. La telefonata che può salvare la vita. Il dolore si alterna ai momenti d’allegria, come quel sorriso colto durante un ballo in una casa d’accoglienza per donne. “In America ogni 15 secondi una donna è malmenata da qualcuno che conosce”, spiega la fotografa di passaggio a Roma, in occasione dell’incontro al CFS – Centro Sperimentale di Fotografia Adams in cui ha presentato il workshop The Erotic Eye.

Vieni definita pioniera della fotografia sulla violenza domestica…
L’ironia è che all’inizio cercavo coppie da fotografare per un servizio sulla sessualità femminile. Sono sempre stata interessata a questo argomento, come affermazione della conoscenza delle donne di sé e del proprio corpo. Mi ero indirizzata verso le più libere e indipendenti. Quando sono arrivata a New York, alla fine degli anni ’70, questa era la mia missione. Non pensavo proprio alla violenza domestica. Non mi pagava nessuno per quello che facevo. Ero una giovane donna con tanta curiosità che cercava una storia potente da proporre a qualche rivista. Lì iniziai a frequentare club di scambisti, transessuali, omosessuali… In un club di scambisti incontrai una donna sposata ad un uomo che sembrava amarla molto. Avevano tre figli e lei ne aveva altri due da un precedente matrimonio. Sembrava così libera! Pensai che avrei potuto raccontare la sua storia che era anche quella di una coppia affiatata.

Come sei riuscita a cogliere il lato oscuro di quella relazione di coppia?
Quando incontrai quella coppia, in un locale per scambisti, ero incinta di un mese. Ero una fotografa indipendente e mi sentivo libera di fare quello che volevo. Se andavo in un locale dove tutti erano nudi, lo ero anch’io. Chiesi loro il permesso di fotografare il loro stile di vita perché erano una famiglia con figli e vivevano in una bellissima casa a Saddle River, nella zona più costosa del New Jersey, proprio accanto al presidente Richard Nixon. Erano svedesi, il marito era molto intelligente, un uomo di successo che con il suo lavoro faceva dollari a palate. Sembrava una situazione tranquilla, lui stesso disse subito di sì. Anche lui fotografava e aveva la camera oscura. Era orgoglioso ed eccitato all’idea di farsi fotografare. Poteva mostrare di essere un grande fotografo a quella strana donna che stava entrando nella sua vita con la sua piccola Leica. Tutto lì! Lei era una donna felice e lui era orgoglioso della sua donna. Questa era l’apparenza. Con il tempo, però, si è rivelata un’altra storia.

Quindi…
Li frequentai per sei mesi, andando a trovarli spesso. Cominciai a vedere come lui la manipolava anche dal punto di vista sessuale. C’è una foto che ho scattato nel bagno della loro casa prima che lui le desse le botte in cui lei si guarda riflessa nello specchio ed è nuda, ad eccezione dei tacchi a spillo. Aveva perplessità ad uscire dalla stanza così. In casa davano un party dove c’erano anche i suoi figli teenager. Fu proprio lui ad incoraggiarla e ad esaltare il suo ego dicendole – Honey, hai un corpo bellissimo! Molto meglio delle altre ragazze. Allora lei, che aveva bevuto ed era sotto l’effetto della droga, uscì. In quegli anni, parliamo dell’inizio degli anni Ottanta, non c’era paura della droga o dell’aids. Era tutto all’insegna della libertà, del divertimento, del sesso. Per me fu penoso vederla nuda con quegli adolescenti intorno. Non bevo, non faccio uso di droghe e, soprattutto, sono una donna che crede nei suoi diritti. Sono forte, non avrei mai fatto qualcosa solo perché un uomo mi aveva detto di farlo. Rimasi scioccata vedendo che lei lo ascoltava, ma continuai a fotografare. Avevo una commissione per l’edizione giapponese di Playboy, a cui avevo proposto di documentare lo swinging world attraverso quella coppia ricca. L’idea era piaciuta e mi avevano anticipato 2000 dollari. Era il mio primo incarico ed ero molto contenta. Però, più frequentavo la coppia e più mi rendevo conto della follia e di quanto tutto questo fosse negativo per i figli. In casa girava la cocaina. Tutti bevevano, anche i ragazzi che scaraventavano bottiglie e bicchieri contro le pareti, si faceva sesso ovunque. Guardavo tutto e fotografavo. Ma quella gente era troppo distante da me, così decisi di non vederli più. Nel frattempo nacque mia figlia. Qualche mese dopo, nel maggio 1982 ricevetti una telefonata da Elisabeth. Mi disse che aveva molta paura del marito, perché aveva una pistola 357 Magnum e faceva cose molto sospettose. Mi pregò di andare da loro. Andai portando la mia bambina di quattro mesi, la macchina fotografica in una mano e la carrozzina nell’altra. Sia lui che lei avevano cerchi intorno agli occhi a causa del grande uso di coca. Devi smettere, dissi a Elisabeth. Devi farti aiutare. Senza dirmi nulla lei nascose la droga. Più tardi eravamo seduti vicino alla piscina quando arrivò il marito tutto sorridente, così affascinante e di bell’aspetto. Cominciò a strattonare la moglie spingendola in casa. Presi la macchina fotografica e li seguii. Dietro di lui il figlio di 3 anni stava piangendo inorridito. In quel momento pensai che dovevo fotografare, così lui avrebbe smesso di darle le botte. Smise e non lo vedemmo per il resto del giorno. Non le chiesi nulla di quello che era successo. Poi, però, nel mezzo della notte mentre dormivo con la mia bambina, senti le urla della donna. Sembrava che la stesse uccidendo. Misi la bimba nel seggiolino e lo poggiai nell’armadio. Afferrai la macchina fotografia ed entrai in bagno. La stava picchiando senza pietà. Se non avessi fotografato nessuno avrebbe creduto a quello che stava succedendo. Gli dissi di smettere perché l’avrebbe ammazzata. Lui, dandomi uno spintone, disse che era sua moglie e che le doveva dare una lezione perché gli aveva mentito. Nell’apparecchio avevo solo un rullino. Lui non mi ha mai fermato mentre scattavo. Alla fine riuscì a trovare la droga che lei aveva nascosto e la buttò nel fuoco del camino. Disse che non ne aveva bisogno ma che non tollerava le bugie. Seguii la donna al piano di sopra, nella discoteca, lei piangeva sul pavimento con la testa tra le mani. Scattai ancora due immagini. Le chiesi di guardarmi negli occhi e dirmi cosa sta succedendo. Lei, piangendo, mi disse che era sempre stata amata da suo marito, ma che non credeva più in quell’amore. Poi tornò in camera da letto, la seguii anche lì. Lui era seduto sul letto e fumava il crack. Lei era in pedi davanti a lui. Me ne tornai nella camera da letto dove avevo lasciato mia figlia. La mattina mi svegliai prestissimo e andai via. Misi il rullino in un cassetto, non lo sviluppai perché ero così arrabbiata per quello che era successo che volevo solo dimenticare quella famiglia. Ma, quattro mesi dopo, il marito mi telefonò dicendomi che Elisabeth era in un centro di disintossicazione perché aveva seri problemi con la droga e l’alcool. Mi disse così. Anche tu ha gli stessi problemi, gli dissi. Ma lui rispose che era tutto sotto controllo. Mi invitò ad andare a trovare sua moglie in ospedale. Lì la vidi con un occhio nero, fu allora che mi resi conto che fino a quel momento avevo negato l’evidenza. Non volevo confrontarmi con la violenza domestica. In ospedale fotografai ogni cosa, poi sviluppai la pellicola e lì c’erano tutte le prove. Quello fu l’inizio. Nessuno volle pubblicare quelle immagini. Né Life, né People, né altri giornali. Tutti mi dicevano che il problema stava nella mia testa. A quell’epoca nessuno si poneva il problema della violenza sulle donne. Se una donna veniva picchiata e andava via di casa, se n’era andata. Se, invece, veniva picchiata e rimaneva era perché amava il marito. Ma, in America, stava avvenendo la rivoluzione, moltissime femministe e attiviste cominciarono a insistere con la polizia perché ci fosse più informazione e i giudici venissero forzati a cambiare la legge. Cominciai anch’io a seguire le femministe andando alle conferenze, informandomi, diventando loro amica, prima di cominciare a vivere nelle case d’accoglienza o nelle case delle donne che subivano violenza. Avevo una sensibilità femminista, ma all’inizio non è stato affatto facile capire quel movimento. Politicamente non mi identificavo con loro. Non sono cresciuta in una famiglia aperta, mia madre era la tipica donna cattolica irlandese che non parlava di sesso e mio padre un chirurgo toracico-vascolare che aveva avuto molte relazioni amorose di cui non ho mai immaginato nulla, finché non sono diventata grande. Ho cominciato a capire qualcosa nel ’68, quando sono uscita dal college. L’anno in cui Martin Luther King fu assassinato, come prima di lui il presidente Kennedy, e noi donne bruciavamo i reggiseni rifiutando tutto ciò in cui si credeva prima. Ero una mamma single con un compagno fotografo molto radicale, Philip Jones Griffiths. E’ stato lui a credere nel mio lavoro e a supportarmi per anni, quando nessun altro ci credeva.

La tua passione per la fotografia come nasce?
Viene da mio padre, Pietro Pizzo Ferrato, come tutte le mie passioni. Mia madre era molto pratica e critica, una donna timorosa. Papà era di origine italiana, abruzzese della provincia di Sulmona. Era lui il genio della famiglia. Veniva da una famiglia poverissima, i suoi genitori erano emigranti. E’ cresciuto con due soli libri, la Bibbia e il dizionario. Ma non credeva nella religione, piuttosto ad averlo nutrito erano le parole, il linguaggio, l’amore, la passione, la curiosità. Era anche un incredibile fotografo. Sono cresciuta vedendo tutto questo, la sua gentilezza verso le persone, l’empatia verso chiunque e le tantissime foto che faceva. Ho imparato tutto da lui, Vederlo stampare e condividere quelle foto con le persone mi ha insegnato tanto. Dopo il college mi innamorai di un uomo (Mark Webb – n.d.R.) che si era laureato ad Harvard e avrebbe voluto fare l’avvocato, ma era un drogato. Ad un certo punto mi resi conto che non avrei voluto fare la moglie di un avvocato. Perché non fare la fotografa? Mi sono detta. La fotografia è un modo per raccontare storie, vedere il mondo. Così da San Francisco, dove vivevamo, divorziai e con la macchina fotografica in mano cominciai a viaggiare facendo l’autostop. Facevo qualsiasi lavoro che mi capitava: pulizie, baby-sitter… giusto per racimolare qualche soldo e continuare a viaggiare. L’ho fatto per qualche anno. Non pensavo al giornalismo, alla documentazione, alla moda… Sentivo che non c’era altra possibilità se non quella di scattare fotografie. Un po’ come per mio padre, anche per me la fotografia è diventata un’ossessione, la cosa più importante!