L’industria della moda sta puntando molto sull’uomo femminile. Vestirsi, truccarsi, profumarsi al femminile è la nuova frontiera dei costumi commerciabili. L’ambiguità, diventata dettame ideologico, fa parte della loro confezione sgargiante. Non siamo più, si dice, nell’«unisex», ma nel «no-gender», nel «gender free»: il mondo, ancora una volta, starebbe cambiando in fretta.
Non viviamo in tempi che consentono di essere tolleranti nei confronti della stupidità umana. «Unisessuale» e «senza genere» descrivono la stessa cosa: l’indifferenziato. Tuttavia mentre il primo termine dà il senso di una compressione della sessualità, della differenza che la fa esistere, il secondo dà la parvenza (un inganno) di una libertà che consiste nel non scegliere niente.

Il termine «genere», la determinazione socioculturale («grammaticale» perché strutturata dal linguaggio) del sesso, designa il corpo come entità biologica, su cui la rappresentazione di sé e dell’altro si innesta manipolandola, come terreno da assoggettare. La rivendicazione di un uso emancipante di questo termine – che agisce come significante alienante- è una delle grandi aporie della nostra epoca. Mostra tutta la potenza delle forze dell’alienazione sul piano della (de)significazione dell’esistenza.

Incastrarsi nei generi «uomo», «donna» che, definiti socialmente secondo i rapporti di potere vigenti, silenziano i corpi erotici amanti delle differenze (maschile/femminile, eterosessuale/omosessuale), per uscirne inventando il «transgenere» o «il terzo genere» (assoggettandosi ulteriormente alle classificazioni), è follia che gli dei mandano a chi vogliono perdere.

Lo scontro nel campo della sessualità è tra due concezioni ugualmente totalitarie che, inscenando un conflitto tra conservatori e progressisti, neutralizzano entrambe il corpo, riducendolo a stereotipie: caricature della femminilità e della maschilità, dispositivi ortopedici che trasformano gli esseri umani in sembianti. Sempre di più dietro le apparenze contraffatte delle identità, emerge il «neutro» (il significato vero dell’unisessuale): un manichino privo di genitalità e di pelle/muscolatura sensuale, pronto a essere rivestito, truccato, profumato nei modi più vari, per il trionfo del mercato della contraffazione.

Al movimento, mercificato e mercificante, dell’uomo verso il sembiante femminile, corrisponde il movimento opposto, anch’esso tendenza di mercato, della donna verso il sembiante maschile (spesso espresso come «iperdonna»: l’eccesso di femminilità tenuto in piedi dal principio di erezione).

Questi movimenti imitano, snaturandole, le identificazioni crociate tra gli opposti: l’escursione interna tra sé e l’oggetto desiderato nel campo dell’amore che consente lo scambio delle prospettive e delle posizioni e rende l’incontro/gioco erotico intenso e profondo. Mettersi, istericamente, nei panni dell’altro, sentire col suo modo di sentire, mantenendo la reciproca differenza e libertà, è il contrario del rivestire i suoi panni, annetterlo in sé per cancellarlo. Consente di inventarlo, crearlo per poterlo riconoscere come cosa diversa da sé ma familiare.

Oggi l’uomo non inventa più la donna, e quindi non la conosce. La donna, per liberarsi dell’uomo padrone, smette di inventarlo. Parole di Ginevra Bompiani (pronunciate in un convegno lo scorso weekend a Capri, organizzato da Giuseppe Esposito e Gemma Trapanese) che aggiunge: «Non è solo come due treni che non s’incontrano, ma come due animali che hanno perso l’olfatto e occupano ciascuno la tana dell’altro. Sono due esseri in esilio che hanno perso il territorio. E che godono della libertà della maschera».