Lo sport ha contribuito al processo di emancipazione delle donne. Dalla misoginia di Pierre de Coubertin all’ostilità della Chiesa, dal distacco politico dei partiti di sinistra fino al ’68 e al movimento femminista, che determinarono pesanti arretratezze negli studi sullo sport femminile. Oggi le olimpiadi invernali appena concluse in Corea del sud, rappresentano il trionfo dello sci femminile azzurro, che fa incetta di medaglie, a differenza dei maschi, e soprattutto fa ben sperare nel futuro. Un volume collettivo con 28 contributi Donna e Sport (Franco Angeli), prossimamente in libreria, rappresenta una svolta per la qualità e la varietà dei temi trattati e colma un vuoto. In occasione dell’ 8 marzo, ne parliamo con Maria Canella, docente all’università Statale di Milano, curatrice della pubblicazione con Sergio Giuntini e Ivano Granata.

Quale è stata la partecipazione delle donne alle olimpiadi?

Nel ripristinare a fine Ottocento le Olimpiadi, in versione moderna e borghese, il barone francese Pierre De Coubertin aveva in mente di ostacolare in ogni modo la partecipazione femminile. Nella sua visione il ruolo che avrebbero dovuto recitare le donne doveva essere coreografico e, come le vestali nell’antica Grecia, a loro il compito di celebrare e incoronare gli atleti vincitori. Egli riteneva che lo sport femminile fosse scarsamente interessante, antiestetico e poco pratico. Una misoginia che, durante la sua permanenza ai vertici del Comitato internazionale olimpico (Cio), sino al 1925, fece sì che la presenza femminile ai Giochi fluttuasse da un minimo dello 0,94% (1904) a un massimo del 4,39% (1924). Sarà necessario attendere Atlanta 1996 per avere il 33,98%.

Quali furono le cause?

Contro una diffusione dello sport femminile agirono svariati fattori d’ordine fisiologico, moralistico, religioso, culturale. La medicina paventava il pericolo che lo sport arrecasse dei danni alla fertilità della donna e le virilizzasse. Il perbenismo piccolo-borghese si preoccupava del decoro e della promiscuità che potevano derivare da uno sport non sottoposto a un rigido controllo. La Chiesa temeva attentasse, con la sua modernità laica, a due caratteristiche ritenute tradizionalmente femminili: la purezza e la devozione, mentre la cultura dominante, verso lo sport femminile mostrava un interesse bassamente voyeuristico. Ogni apertura era vista con sospetto e quando nell’edizione di Amsterdam del 1928, si cominciarono a porre le basi per l’introduzione di alcune gare atletiche femminili il Cio alzò una cortina ostile, limitando l’accesso a cinque gare. Furono gli 800 metri ad assurgere a paradigma dei profondi pregiudizi nutriti nei riguardi dello sport femminile, i membri più oltranzisti del Comitato olimpico scaricarono tutte le loro frustrazioni. La gara diede luogo a notevoli riscontri tecnici accompagnati da polemiche altrettanto eclatanti, la gara finale fu disputata con ritmi molto elevati facendo registrare il nuovo primato del mondo della tedesca Karoline Batschauer-Radtke in 2’16”4/5. A destare impressione non fu tanto quella straordinaria performance, quanto piuttosto le condizioni di logico affaticamento denotate da talune atlete all’arrivo, visto che si gareggiò il 1 di agosto. Il Daily Mail britannico scrisse che quelle ragazze sarebbero divenute “vecchie troppo presto”. Il Cio, che probabilmente non aspettava altro, bandì gli 800 metri femminili da ogni futura olimpiade fino a quelle di Roma 1960.

Perché le polemiche si concentrarono sugli 800 metri?

Se le donne-atlete avessero varcato le colonne d’Ercole degli 800 metri, i confini del globo dominato dall’uomo si sarebbero ristretti. Bisognava impedire alle donne di andare oltre le corse veloci, d’altronde la posta in gioco era molto più alta del mezzofondo, spaventava il movimento sportivo femminile, le sue potenzialità liberatrici ed emancipatrici, che cominciavano a essere colte dagli ambienti più conservatori della società. In Italia il processo di sviluppo delle pratiche sportive femminili risultò ancora più lento e contrastato.

Con il fascismo cambia qualcosa?

I maggiori sforzi vennero esperiti proprio dal regime fascista. La nazione aveva bisogno di figli, braccia per il lavoro e baionette per la guerra. Occorreva ovviare alle carenze alimentari e alle malattie che affliggevano la popolazione mediante degli stili di vita più igienici, i medesimi adottati dal duce proclamato “primo sportivo d’Italia”. Donne più sane avrebbero dato madri più prolifiche, in grado di partorire una figliolanza numerosa. Da questo assunto discese la scoperta dei benefici salutistici derivanti alle donne dagli esercizi fisici e dagli sport promossi in seno alle strutture fasciste giovanili e dopolavoristiche. Tuttavia una sportivizzazione indotta innescò dei meccanismi alla lunga difficilmente controllabili, la donna-atleta mediante i contatti maturati con realtà nuove e patentemente trasgressive, le palestre, gli stadi, il pubblico, le trasferte, l’acquisizione d’una conoscenza più disinibita e sicura della propria dimensione corporea, quali erano quelli offerti dallo sport, finì con l’introiettare una diversa immagine di sé, rafforzò la propria autostima. Questo fenomeno diede luogo, sotterraneamente, a una sorta di nemesi storica, per cui la donna cominciò a discostarsi dai modelli di “sposa fedele e madre esemplare” proposti dal regime. Da qui le fughe in avanti e le brusche frenate che il regime, sollecitato dalla Chiesa cattolica, attuò nel dispiegare le sue linee d’intervento sportivo femminile.

Dopo la Liberazione?

Nel secondo dopoguerra il processo politicizzato e strumentale s’interruppe, ma non fu sostituito da uno alternativo. Il sistema partitico e le nuove classi dirigenti uscite dall’antifascismo e dalla Resistenza non si assunsero la responsabilità delegando al Coni, e in forma sussidiaria agli enti di promozione sportiva, non investirono sullo “sport per tutti”e tantomeno su quello femminile. Allo stesso modo, né il ’68 né il femminismo italiano del decennio seguente seppero o vollero utilizzare lo sport quale terreno di lotta e di rivendicazioni di genere. Nel nostro Paese non si ebbe nulla di paragonabile alla riflessione critica avviata in questo campo negli Stati Uniti o in Francia.

Quali furono le conseguenze?

Le arretratezze scontate in Italia dagli studi applicati allo sport femminile, solo negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso si ebbero in ambito storico i primi lavori di alcune ricercatrici, Marina Addis Saba, Rosella Isidori Frasca, Patrizia Dogliani, Patrizia Ferrara, Gigliola Gori, Angela Teja, che non a caso li focalizzarono sul rapporto tra donna e sport nel periodo fascista. Per quanto interessanti e stimolanti queste opere pionieristiche, non hanno aperto un nuovo filone di studi, ha prevalso una narrazione d’impronta giornalistica, impegnata in una ricca produzione biografica e memorialistica sulle maggiori campionesse o l’epicizzazione delle nazionali e delle squadre di club, mentre manca ancora oggi una storia organica dello sport italiano e delle diverse discipline declinati al femminile.

In Italia c’è parità tra uomini e donne nello sport?

A livello di gruppi dirigenti, le federazioni del Coni hanno avuto 707 presidenti, ma soltanto una donna, Andreina Prestiniè stata presidente della Federazione italiana sport equestri (Fise) nel 2008-2009. Su oltre un secolo di vita, i segretari generali ai vertici delle diverse federazioni italiane sono stati 609, le donne 26. Il cammino da compiere per lo sport femminile è ancora molto lungo, irto di difficoltà, la speranza è che questo volume, ripercorrendone alcuni fondamentali passaggi storici, sottolineandone le criticità, possa contribuire ad accelerare la marcia. Non dimentichiamo l’importanza che lo sport ha avuto nel processo di emancipazione delle donne a livello nazionale e internazionale, è questo il motivo per cui dedichiamo il volume alle sportive di ieri, di oggi e di domani.