Il convoglio umanitario russo, una colonna di più di duecentocinquanta autotreni, è fermo, mentre scriviamo, sulla strada che porta al confine con l’Ucraina. I mezzi contengono generi alimentari, medicinali e tutto ciò che può servire ai civili di Donetsk e Lugansk, le due roccaforti dei ribelli filorussi. Le ultime rimaste, in pratica. Le forze di Kiev sono avanzate, recentemente. Ora stringono le due città d’assedio, con gli insorti che cercano non senza fatica di resistere. Chi non è riuscito a fuggire non ha nulla: né cibo, né acqua, né elettricità.

La situazione è oltre il livello di emergenza, ma difficilmente sarà il convoglio russo a fornire assistenza. La contromossa di Kiev, spiazzata dall’iniziativa di Putin, intenta a dimostrare che il governo ucraino non sa proteggere i suoi stessi cittadini dalla furia del conflitto, ma anche – si ipotizza – a dare modo ai ribelli di riorganizzarsi, visto che la consegna degli aiuti imporrebbe di tenere a freno le armi, è stata affidata a Rinat Akhmetov.

È il più ricco degli oligarchi ucraini e ieri ha annunciato che rifornirà le popolazioni che vivono sulla linea del fronte con diecimila tonnellate di aiuti. Ma non prima del venti di questo mese.
Questa notizia, dovesse essere ufficialmente confermata, dà modo di pensare che Kiev, fino a quella data, alzerà il livello dello scontro cercando di imporre ai ribelli di sventolare la bandiera bianca. Tra le loro file, nel frattempo, s’è registrato l’ennesimo avvicendamento degli ultimi giorni. Ieri Igor Girkin, nome di battaglia Strelkov, ha lasciato la carica di ministro della Difesa della Repubblica popolare di Donetsk.

Strelkov, di cui si dice che possa essersi ferito, è stato sostituito da un personaggio di cui non si conosce che il nom de guerre: zar. Lo ha riferito Alexandr Borodai, che fino a qualche giorno fa è stato primo ministro della Repubblica di Donetsk, salvo poi dimettersi e rientrare in Russia, della quale, come Strelkov, è cittadino.

Qualcuno ha spiegato che le dimissioni di Borodai servono a fugare i dubbi, non certo lievi, che la rivolta nell’est dell’Ucraina sia eterodiretta da Mosca. Il posto di Borodai è stato non a caso preso da un ucraino, Alexander Zakharchenko.

Anche nell’entità scissionista di Lugansk, che compone con quella di Donetsk la cosiddetta Nuova Russia, c’è stato un cambio al vertice. Il primo ministro Valery Bolotov ha ceduto i poteri al responsabile della difesa, Igor Plotnitskiy. In questo caso tuttavia non c’entrano le questioni di nazionalità (Bolotov è ucraino), ma le ferite – questa almeno la ragione ufficiale – riportate da Bolotov. Non gli permettono, ha spiegato, di esercitare al meglio le funzioni.

La decisione di Akhmetov di offrire aiuti è tutta da decifrare. Nel corso della crisi ucraina l’oligarca ha avuto un atteggiamento criptico. Ha preso le distanze da Yanukovich, senza rompere del tutto. Poi, caduto il regime dell’ex presidente, ha scelto di stare con il nuovo potere di Kiev, ma mantenendo tutto sommato un profilo basso. Prima che la guerra a est diventasse un’opzione irreversibile ha cercato di mobilitare contro i ribelli e a favore dell’unità nazionale le maestranze dei suoi colossi industriali, molti dei quali radicati nella regione di Donetsk. Operazione fallita.

Il suo riemergere con questa promessa di aiuti potrebbe essere interpretato come una il frutto di qualche accordo sottobanco con il presidente Petro Poroshenko, in vista dei giochi e delle spartizioni di potere che gli oligarchi, i padroni assoluti del paese, pochi uomini (tra questi lo stesso Poroshenko) che controllano una larga quota della ricchezza nazionale, faranno prossimamente a Kiev. Ammesso che Kiev liquidi la resistenza filorussa.

Nel frattempo il convoglio russo è lì, fermo dalle parti del confine. Entrerà in Ucraina? Putin ha in mente qualche altra mossa spiazzante? Al momento si è limitato a dire, dalla Crimea, dov’è stato in visita, che il conflitto deve cessare presto. A stretto giro di posta il ministero degli esteri russo ha chiesto un cessate il fuoco.