Con oltre il 90 percento dei favorevoli nella regione di Lugansk, e oltre l’80 percento in quella di Donetsk, le due regioni separatiste hanno ufficializzato la propria richiesta di indipendenza. Le immagini del week end hanno mostrato parecchia gente accorsa ai seggi, accusati di non aver brillato per trasparenza; ma d’altro canto il risultato era scontato e il referendum rappresenta il momento più simbolico della mancanza di fiducia, da parte delle regioni orientali, rispetto al governo uscito dalla battaglia di Majdan a Kiev.

Superata la domenica di voto, dunque, si ritorna a parlare di potenziali soluzioni alla crisi, anche se il risultato elettorale delle regioni separatiste ha allontanato ancora di più le parti. Per Kiev, l’Unione europea e gli Stati uniti si è trattato di una farsa; ben diverso il significato per i ribelli che hanno chiesto, dopo l’ufficializzazione del voto, l’annessione alla Federazione russa. Una richiesta che segue le orme di quanto accaduto in Crimea, ma che vede Mosca meno determinata ad accogliere l’invito. Non solo, perché il capo degli insorti filorussi dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pushilin, ha dichiarato che le elezioni presidenziali ucraine del prossimo 25 maggio «non avranno luogo» nella regione di Donetsk. Pushilin ha quindi affermato che per la settimana prossima non è previsto alcun referendum per l’annessione alla Russia ipotizzato da alcuni osservatori. La richiesta di annessione, però, rimane. La regione di Lugansk ha invece chiesto al governo ucraino «un’iniziativa di emergenza» per modificare la Costituzione e adottare il federalismo.

Mosca ha fatto sapere di rispettare «l’espressione della volontà della popolazione della regione di Donetsk e Lugansk», confermando la propria speranza nel «dialogo tra i rappresentanti di Kiev, di Donetsk e di Lugansk». Questa è la linea di Mosca, già ripetuta più volte, arrivata dopo alcune aperture piuttosto rilevanti da parte del Cremlino. Putin ha sottolineato tre aspetti per aprire nuovamente il dialogo tra le parti: stop all’offensiva di Kiev, in modo da assicurare le elezioni presidenziali del 25 maggio e in attesa, dialogo tra Majdan e i «separatisti».
Il problema è che Kiev da questo punto di vista non sembra sentirci. Ieri dopo la proclamazione dei risultati del referendum sono ripartiti i bombardamenti alle città orientali, mentre l’ipotesi di un dialogo con gli esponenti delle regioni dell’est del paese non sembra rientrare negli impegni segnati nell’agenda di Kiev.

D’altro canto Unione europea e Stati uniti sembrano fare ben poco per favorire un negoziato di questo tipo.
L’Ue, nonostante le aperture di Hollande e Merkel del fine settimana, non pare avere la forza di costringere Kiev a un dialogo, neanche sotto la minaccia, magari, di congelare gli aiuti economici. La mancata forza di Bruxelles è evidente pensando ad altri due elementi: la Ue aveva chiesto a gran voce un’indagine indipendente sui fatti di Majdan e una sul tragico togo di Odessa. Da Kiev nessuna risposta, né Bruxelles ha mai preso posizione sui 46 morti del palazzo del sindacato.

Dall’altro lato gli Usa, sono gli ultimi a poter mediare, vista la loro posizione così netta fin dall’inizio dello scontro in Ucraina. Non solo durante i giorni delle proteste e quelli della battaglia, l’ambasciata di Kiev è stata il quartier generale della Cia, con tanto di capo al seguito, come ammesso da Washington, non solo ha mandato in Ucraina aiuti militari non letali e uomini dell’Fbi, ma da quanto risulta dalla stampa tedesca (Der Spiegel) avrebbe inviato anche 400 mercenari a combattere nelle regioni orientali. Senza considerare il fatto di aver finto di non vedere, al pari dell’Unione europea, la presenza di neonazisti all’interno dei meccanismi politici e militari del governo Yatseniuk.

Tutti invece si sono trovati concordi nel considerare la Russia come responsabile della crisi, tanto che ieri l’Unione europea ha fatto partire nuove sanzioni contro Mosca. Il Consiglio Ue Affari esteri, in corso a Bruxelles, ha deciso di ampliare i criteri e la base legale delle sanzioni. Per la prima volta i ministri degli Esteri della Ue hanno deciso di colpire due imprese della Crimea, nazionalizzate dalla Russia a seguito dell’annessione della regione. Estesa anche la lista delle persone colpite dal congelamento degli asset finanziari e dalla restrizione sui visti. In numero delle persone sanzionate è salito a 61. Nel frattempo Yatseniuk, il premier autoproclamato di Kiev, ieri in serata ha incotnrato a Kiev il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e domani sarà ospite a Bruxelles.

La Commissione, ha ricordato l’esecutivo euroepeo, «è determinata ad aiutare l’Ucraina e ad assicurare che l’Ucraina abbia tutto il sostegno di cui ha bisogno, nel breve e nel lungo periodo».