Un referendum popolare per decidere il destino del Donbass. Questa è stata una delle proposte fatte da Vladimir Putin a Donald Trump nell’incontro di lunedì scorso a Helsinki. Ieri l’agenzia Bloomberg ha un articolo del suo corrispondente da Mosca Ilya Arkhipov in cui si rivelava – citando delle fonti diplomatiche russe – l’esistenza di un possibile accordo russo-americano per arrivare alla pace nella tormentata regione dell’Ucraina orientale.

Per Arkhipov l’«ipotesi referendaria» sarebbe stata considerata «interessante» dal presidente americano il quale avrebbe chiesto al suo omologo russo di «non parlarne in conferenza stampa in modo tale da dare il tempo alla Casa Bianca di studiarla attentamente». Dopo la diffusione della notizia mentre Washington si trincerava dietro il «no comment», il silenzio di Mosca risultava imbarazzato. Silenzio che veniva rotto in tarda mattinata da una dichiarazione del portavoce di Putin, Dmitry Peskov, in cui si si riconosceva che questa «era una delle ipotesi discusse nel vertice nella capitale finlandese». La conferma, implicita, scatenava a questo punto il dibattito. Alla Duma più di un deputato si chiedeva se la diffusione della proposta fosse stata «dibatterla o per bruciarla». Sempre ieri, del resto, seppur a livello informale, è circolata la notizia di un invito di Trump a Putin a Washington per l’autunno.

IN REALTÀ l’ipotesi del referendum presenterebbe più di un problema. Le due «repubbliche popolari» di Lugansk e di Donetsk hanno già svolto nel 2014 un referendum sull’indipendenza da Kiev conclusosi sì con un plebiscito del 90% di votanti a favore della secessione dall’Ucraina, ma il voto non venne riconosciuto a livello internazionale da nessuno, Federazione Russa compresa. La quale, al contrario, firmò assieme a Ucraina, Francia e Germania nel 2015 i cosiddetti Accordi di Minsk che prevedono il reintegro delle due provincie nell’Ucraina, seppure in un quadro di forte autonomia.

Subito dopo le prime reazioni negative francese e tedesca: «È il tentativo russo di incorporare “legalmente” le due zone mentre gli accordi sottoscritti conducono da tutt’altra parte» sostenevano Berlino e Parigi. Nella ridda di dichiarazioni seguite, un funzionario del ministero degli esteri russo, non ufficialmente. ha dichiarato all’agenzia Interfax di Mosca che «è sbagliato fare rifermento allo “scenario crimeano”.

Esiste invece l’ipotesi che i residenti del Donbass si possano esprimere in piena legalità giuridica per quanto riguarda la concessione di autonomia a singole regioni all’interno dell’Ucraina in modo che Kiev garantisca alla regione i diritti politici appropriati». Una formulazione bizantina volutamente poco chiara perché non prevista dagli accordi di Minsk; e poi di fatto smentita in serata dalla portavoce ufficiale del dicastero Marya Zacharova che in qualche misura apre a ipotesi inedite che prevedano il superamento degli Accordi di Minsk. «Se la comunità internazionale e, prima di tutto, gli Stati Uniti, non potrebbero costringere Kiev a rispettare gli accordi di Minsk, è possibile discutere altre opzioni per risolvere la crisi inter-ucraina» affermava Zacharova.

NELLA GIORNATA di ieri nel dibattito sull’Ucraina da segnalare anche le dichiarazioni di Matteo Salvini prima al Washington Post in cui riconosce la secessione della Crimea dall’Ucraina e poi un post sulla sua pagina di Facebook in cui sostiene l’ipotesi di una balcanizzazione dell’Ucraina, dichiarandosi a favore di «un referendum, che permetta all’Ucraina di separarsi civilmente la parte Ovest da sempre più vicina all’Europa, la parte Est storicamente vicina alla Russia. Senza sangue, senza armi, guardando al Futuro. A meno che qualcuno, a Berlino o a Washington, non abbia interessi economici e politici diversi…».