È difficile capire Donald Trump se lo si analizza come fenomeno totalmente nuovo. Sì, lui è la prima reality star a candidarsi alla carica di Presidente degli Stati Uniti e Commander-in-chief. La novità della sua ascesa nasconde radici ben profonde di un nativism estremo sempre presente nella palude dell’immaginazione politica americana. Nel cinema troviamo diverse versioni del Donald che in qualche modo ci aiutano a capire il demagogo. Cominciamo dall’inizio con Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese. Nella scena più bella del film il macellaio Bill (Daniel Day-Lewis) parla con Amsterdam (DiCaprio) e spiega che è la paura «che mantiene l’ordine delle cose … lo spettacolo di atti temibili».

Bill è un proto-gangster ma è anche un «nativist», anti-immigrati, anti-cattolici, e durante il suo discorso indossa la bandiera a stelle e strice. Paura, odio, e violenza: vi ricorda qualcuno? In Quarto Potere (1941) Orson Welles fa il ritratto di un riccone insoddisfatto: «Sa signor Bernstein, se non fossi stato un uomo molto ricco sarei potuto essere un grande uomo». Col suo impero mediatico, Charles Foster Kane entra in politica con la stessa idea di Trump, quella di un milionario che si erge a difensore della gente comune. E come Trump anche lui lo fa nei panni di un ribelle, che si oppone alla corruzione della vecchia politica. Rappresenta l’anti-politica. Il film non è soltanto un ritratto del potere, ma anche dei suoi limiti. Per esempio Kane promuove la carriera della moglie, cantante mediocre, solo fino a un certo punto, mentre la sua carriera politica finisce con uno scandalo che, nonostante tutti i suoi soldi, non riesce ad evitare. Ma il moralismo dell’epoca – e ancora presente nelle campagne di Bush Jr – non conta più con Trump, uomo pluri-sposato che parla della bellezza della figlia in questi termini: «se non fossi suo padre…», senza alcun imbarazzo. In Quinto Potere (1976) incontriamo ancora la rabbia contro una politica che non si cura dei problemi e delle paure condivisi dalla massa dei cittadini. Peter Finch è Howard Beale, un telecronista licenziato che dopo una minaccia di suicido in diretta diventa un tribuno del popolo e utilizza la sua trasmissione per inveire contro lo stato ‘delle cose’.

Lui non offre né analisi, né soluzioni, ma mostra solo disprezzo e una rabbia basata su una visione nichilista del mondo: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!» La sua è una furia alimentata da una disperazione unica, ma mentre il pubblico risponde, urlando dalle finestre e facendo aumentare lo share, il suo network gli dà un programma tutto suo e il capo dello studio Ned Beatty comincia a trasformare il suo messaggio in uno ancora più disperato e pauroso. La rabbia e l’anti-politica vanno d’amore e d’accordo con i poteri forti, ma alla fin fine Beale è solo uno che fa il telegiornale e il suo impatto è transitorio. Invece l’ultima figura che forse ci aiuta a smascherare Trump è interpretata da Martin Sheen – quel famoso liberale hollywoodiano. Stillson è un candidato premier, un demagogo in La Zona Morta (1983) che il medium Christopher Walken vede lanciare missili nucleari in una visione paranormale. Al generale che gli resiste Stillson dice: «Sei un codardo! Non sei la voce del popolo, io sono la voce del popolo!» Alla fine della Convention Nazionale Repubblicana, Trump ha fatto un discorso nel quale ha detto: «Io sono con voi, io sono la vostra voce». La voce del popolo? Esattamente le stesse parole di Stillson, Presidente in un film d’orrore che più che il prossimo, voleva essere l’ultimo Presidente degli Stati Uniti.