Chissà se l’artista Sarah Levy si aspettava tanto clamore e che un suo quadro potesse scuotere così l’opinione pubblica americana e la campagna elettorale per il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Quell’opera lei l’ha realizzata con la pazienza: ha atteso il ciclo mestruale e poi con tamponi e pennelli ha agito. Così il faccione urlante di Donald Trump è finito su tela. Nessun carboncino a definirne i tratti scomposti, ma puro e semplice sangue «femminile».
L’opera si chiama Whatever, l’autrice è la giovanissima Sarah Levy, Portland, Oregon. Si definisce «un’artista rivoluzionaria, un’attivista». A 26 anni ha visto la sua opera, nata da un’intuizione, rimbalzare sui principali quotidiani e media statunitensi e del mondo: dal Washington Post al The Independent, dalla Fox all’Huffington Post. Negli stessi giorni l’hashtag #bloodytrump diventava virale.

«Ho deciso di dipingere la faccia di Donald Trump con il sangue mestruale dopo un suo commento rivolto a una giornalista della Fox, durante un dibattito tra candidati alla presidenza – ha spiegato Sarah al manifesto – Ha usato il ciclo mestruale come un insulto. Per non rispondere alle pressanti domande sulle politiche di migrazione ha reagito gridando ‘Si può vedere il sangue uscire dai suoi occhi, uscire da ovunque’. Al di là delle naturali proteste sollevate da più parti, ho pensato che potevo fare qualcosa di più».

«In quel momento avevo il ciclo e allora mi è venuta l’idea – ha continuato poi -. È oltraggioso che qualcuno che partecipa alle presidenziali, non un semplice governatore o un milionario qualsiasi, possa dire una cosa del genere e restare in gara. L’attenzione che il dipinto ha ricevuto dimostra quanto offensivo fosse quel commento. La gente ne parla, ne discute, pubblica il suo video: dovrebbe sempre avvenire quando si ha di fronte un personaggio che gode di tanta attenzione mediatica».

Al di là della sfida aperta a una figura che incarna un becero razzismo (l’ultima, la cacciata di una signora musulmana da un suo comizio, ndr) in e una più generale avversione verso tutto quello che può essere categorizzato come «diverso», che siano donne, migranti, attivisti, Sarah Levy ha cercato di centrare anche un altro obiettivo: indebolire il tradizionale stigma che ruota intorno al ciclo mestruale. «Volevo sollevare una questione: ci si deve liberare dall’idea che le donne siano inferiori o addirittura disgustose».

La giovane artista punta sullo choc mediatico per un’opera inusuale (già nel ’72 Judy Chicago aveva creato un’istallazione dal titolo Menstrual bathroom e quel sangue usato come materia prima nell’arte ha una lunghissima storia, ndr), ispirata da un commento che sottende molto di più: la disuguaglianza di genere, le differenze di trattamento, le scelte fatte da uomini sul corpo delle donne. «L’arte visuale aiuta moltissimo, soprattutto in un mondo in cui media si sono trasformati e le informazioni viaggiano, si sovrappongono in poco tempo – ha affermato l’autrice – La gente è più colpita da un’immagine che dalle parole. L’immagine ha maggior potere rispetto a un articolo, a cui bisogna dedicare tempo e prestare attenzione. Lo si capisce dalla reazione delle persone al quadro: molti lo hanno ritenuto fantastico, altri solo disgustoso. A me basta che se ne parli, che la questione non venga costantemente occultata. Vorrei che un quadro dipinto con il sangue mestruale potesse offrire maggiore sicurezza alle donne nel contrastare l’equazione mestruazione uguale debolezza o inferiorità».

Sarah Levy dipinge da tempo: era normale vederla nei caffè palestinesi della Cisgiordania, con un carboncino in mano, a definire i tratti di persone incontrate per le strade di Palestina. Questo è un cambio di rotta: chi la conosce sa che lei ha sempre privilegiato personaggi che veicolassero un messaggio positivo e allo stesso tempo politico: facce che esprimevano la lotta all’oppressione, la spinta verso la conquista dei propri diritti.

Ora, a finire su tela, è una figura per Sarah chiaramente negativa: «I ritratti realizzati in questi anni sono dedicati a persone che rispetto e su cui vorrei attirare l’attenzione, che siano figure storiche, lavoratori pakistani, o semplici palestinesi che ogni giorno resistono e portano nello sguardo il sumud (in arabo resilienza, termine utilizzato dal popolo palestinese per indicare la resistenza all’occupazione, ndr). Non ho mai ritratto personaggi che non mi piacciono. Ma ora sono convinta di poterlo fare, usando il mezzo appropriato per i loro comportamenti: non il carboncino ma il sangue».

Da qui l’idea, suggerita dal web, di proseguire con una vera e propria serie: «Una galleria di ritratti di criminali di guerra, con sangue su volto e mani: Netanyahu, Bush, Hillary Clinton. Appena avrò di nuovo tempo, quando l’attenzione dei media calerà, continuerò con il mio lavoro – ha sostenuto Levy sorridendo – Mi hanno offerto di organizzare una mostra a New York e devo decidere se realizzarne altri».

L’arte come critica, come iniziativa politica, come presa di coscienza. E anche come raccolta fondi: dopo aver reso pubblico il quadro di Trump, l’autrice ha deciso di metterlo in vendita e di donare il ricavato a un’organizzazione che sostiene i migranti «perché Don lo odierebbe». «Il ricavato andrà a VOZ – Workers’ Rights Education Project di Portland: si impegnano per migliorare le loro condizioni e i diritti civili di lavoratori giornalieri e migranti attraverso programmi di sviluppo, educativi e economici. Ho già venduto centinaia di poster. Non so bene perché qualcuno voglia un manifesto con la faccia di Trump, forse pensano sia un momento ’storico’. E anche questi soldi, ovviamente, andranno a VOZ».

E mentre il quadro continua a girare per la rete e nei più noti quotidiani statunitensi, non mancano gli attacchi personali a Sarah Levy, sterili commenti sulla sua presunta sessualità e sulle sue idee politiche. Che sia lo specchio di un’attitudine più generale verso la diversità, che si tratti di scelte sessuali, fede religiosa, convinzioni politiche o razza? Ma lei è ottimista: «Mi hanno accusata di antisemitismo, e dire che sono ebrea. Altri di essere una lesbica bastarda. In ogni caso, la maggior parte dei commenti è positiva, solo una minoranza mi insulta. Penso che l’apertura verso la diversità oggi sia molto più radicata di prima, soprattutto tra i più giovani. In genere, chi ha meno di 40 anni tende ad essere anti-razzista e anti-sessista, lo si è visto anche nella reazione di molti al movimento per i diritti degli afroamericani, il cosiddetto Black Movement, esploso in estate».

«La necessità di molti giovani di avvicinarsi a movimenti di base è lo specchio della crisi della politica tradizionale, incapace di fornire soluzioni alternative e nuove – ha concluso Sarah – Stiamo assistendo a una crescita dei movimenti di sinistra, come di quelli di estrema destra, perché si cerca qualcosa di alternativo al vecchio sistema bipartitico. Per la sinistra è una sfida importante, costruire una nuova soluzione politica che vada al di là del sistema tradizionale e attragga i giovani e i movimenti di base».

E l’appeal di Trump? Qualche mese fa Sarah Levy era convinta che la maggior parte degli americani ne fosse terrorizzata. Oggi teme che ne sia attratta: «Trump parla a un settore della popolazione statunitense frustrata dalla crisi economica. In mancanza di un’alternativa, viene ascoltato. Purtroppo una delle ragioni del suo successo è che il suo fanatismo viene amplificato dai media. Insomma, non penso che Trump sia rappresentativo del sentimento popolare ma per una serie di ragioni è diventato un punto centrale di questo ciclo elettorale».