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Donald Trump e la logica del «deal»

American Psycho Per chi è americano, e ha un minimo di idee progressiste, questo presidente è davvero il peggiore della storia. Per chi vive in America oggi, accendere la tv, o andare su Google news o sui social, è un incubo quotidiano, a mala pena lenito dai programmi di satira politica. Come uno schiacciasassi, questa amministrazione si muove minacciosamente contro tutto ciò che, specie con l’amministrazione Obama, i democratici sono riusciti a far avanzare nella società e nella politica. Col risultato di un clima interno di guerra civile

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 21 aprile 2018

I funerali oggi a Houston di Barbara Bush fanno tornare agli onori delle cronache i tempi del 41mo e del 43mo presidente americano, repubblicani vecchio stile, una dinastia. Nell’elogio unanime dell’ex first lady e madre di George W. è evidente, nel grosso dei commentatori, la nostalgia di un’era politica nella quale alla Casa bianca abitava un presidente e non un adolescente, utente compulsivo di Twitter. Che poi siano – i presidenti da rimpiangere – George Bush sr che scatenò la prima guerra del Golfo, e suo figlio, che s’incaricò di completare l’invasione, al prezzo di centinaia di migliaia di vittime civili, militari caduti e feriti come in un secondo Vietnam, e con conseguenze catastrofiche nel quadrante mediorientale, ben lontane dall’essere sanate (anzi), sono dettagli che scompaiono di fronte all’irruente rozzezza parolaia dell’attuale presidente.

Per chi è americano, e ha un minimo di idee progressiste, questo presidente è davvero il peggiore della storia. Per chi vive in America oggi, accendere la tv, o andare su Google news o sui social, è un incubo quotidiano, a mala pena lenito dai programmi di satira politica. Come uno schiacciasassi, questa amministrazione si muove minacciosamente contro tutto ciò che, specie con l’amministrazione Obama, i democratici sono riusciti a far avanzare nella società e nella politica. Col risultato di un clima interno di guerra civile.

Ma chi non è americano? Deve associarsi alla nostalgia delle epoche precedenti, alle amministrazioni dei predecessori repubblicani di «The Donald»? Davvero il mondo stava meglio e più al sicuro prima di Trump? Obama, visto retrospettivamente, sembra una parentesi lungo un percorso costellato di conflitti, alimentati o favoriti dalle amministrazioni americane e dal complesso militare industriale e da quello energetico. Nei fatti, Trump è più in linea col suo predecessore democratico che con quelli repubblicani.

In effetti le crisi con cui si trova a trattare l’attuale presidente non sono l’esito delle sue politiche, ma vengono da lontano, in particolare dagli anni di Reagan e dei due Bush, presidenti che con la gravitas dell’alta carica, l’esibita pratica di valori religiosi e della famiglia mandavano con la massima disinvoltura al macello giovani americani per occupare e bombardare paesi lontani. Questo non significa che Trump, invece, porti avanti una politica internazionale all’insegna della pace. Ma il suo dna lo porta più a siglare deal, a stringere patti e a concludere affari che a fare il comandante in capo.

Lo stesso attacco alla Siria, per quanto deprecabile, sul piano concreto è stato universalmente considerato poco più che un avvertimento.
Al quale sono infatti seguiti la conferma della sua intenzione di ritirare le forze americane dal teatro siriano e – nei confronti di Putin, il protettore di Assad – lo stop all’inasprimento delle sanzioni, annunciate dall’ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley

Molti considerano ondivaga, erratica, imprevedibile la politica internazionale di Trump, e pertanto pericolosa. In realtà, egli segue un suo filo «logico» dal quale di tanto in tanto sembra distaccarsi, e quando lo fa, tatticamente, com’è appunto il caso siriano, c’è come un sospiro di sollievo in che vede in lui, finalmente, il presidente interventista e muscolare com’erano i due Bush. Con lo stupore seguente di scoprire che non è un nuovo Bush. È il solito Trump. Seguendo il suo filo «logico» si arriva al nucleo centrale e strategico della sua visione, che è rappresentato dal deal con Mosca. Se c’è bisogno di una conferma recente di questo punto fermo, è non solo la smentita clamorosa delle misure prospettate dalla sua ambasciatrice all’Onu, ma perfino la voce di una incontro alla Casa bianca con lo stesso Vladimir Putin.

Che quest’attenzione alla Russia sia l’esito di un ricatto ordito da Putin, come sembra dire il susseguirsi di rivelazioni a sfondo hard che tirano in ballo direttamente Putin e Trump, o che questa stessa «campagna» possa essere la trama della potente lobby antirussa a Washington, non lo sapremo mai. Certo, colpisce quanto rivela l’ex direttore dell’Fbi James Comey sulla connection Trump-Putin, ma al tempo stesso colpisce forse ancor di più che un «servitore dello stato» metta in piazza i suoi rapporti sui colloqui con il presidente, scegliendo e offrendo le ciliegie più gustose. Qualunque sia l’origine e lo scopo del fango che ormai invade la Casa bianca, Trump continua a sfidare la legge della gravità grazie al sostegno – lo confermano gli ultimi sondaggi – della sua base più fedele, innanzitutto gli evangelici che non sembrano assolutamente sfiorati dagli scandali, e la classe operaia bianca delle aree depresse, che continua a considerarlo il suo presidente. Tanto che le stesse elezioni di medio termine sono ancora un rebus per i democratici, ancora in affanno nell’elaborazione di una propria strategia, nella convinzione che il Trump perennemente sul ciglio di un impeachment porti inevitabilmente il suo partito alla disfatta.

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